RACCONTO – L’isola dei demoni

RACCONTO – L’isola dei demoni

Si guardavano negli occhi con la dolcezza dell’amore glabro. Ben seduti ed educati di fronte all’uomo da rispettare, a fatica si esimevano dal contatto fisico, ricercandosi ad ogni minima scusa. Quando l’uomo si rivolgeva a lui ammonendolo su certi atteggiamenti, lei gli allungava una tenera pacca sulle gambe; quando l’uomo delineava il futuro di lei con il giusto comportamento, lui le carezzava la mano in un gesto discreto senza alcun richiamo di possesso né di sensualità. 

L’uomo parlava loro con la saggezza dei maestri. Era un guaritore.

Mezz’età, capelli corti, ricci e bianchi su una pelle molto scura, aveva l’eleganza nei modi e nel linguaggio di chi non si lascia più sgualcire l’abito del mondo dall’esuberanza delle emozioni. Si rivolgeva ai ragazzi con autorità e delicatezza, alleggerendo la pesantezza degli argomenti con scherzi e risate mai inopportuni. 

I ragazzi talvolta si mostravano imbarazzati come si può essere quando l’amore viene palesato e discusso con disinvoltura, mentre per gli interessati è ancora qualcosa di magico e non pienamente comprensibile. Ridevano abbassando lo sguardo o voltandosi per non mostrare il rosso delle guance. In certi momenti sfuggivano al contatto visivo l’uno dell’altro, senza perdere quello fisico. Lei era più grande di lui di sei mesi e aveva la pelle più chiara della media, tanto da farla passare per una della capitale. Gli occhiali da vista le davano un aspetto ancora più sofisticato, ma il sorriso leggiadro e amabile come quello di tutte le sue compagne del posto, allontanavano ogni spettro di freddezza cittadina. Lui aveva gli occhi stretti in due fessure che sembravano scaraventate laggiù dal lontano nord della steppe asiatiche, nonostante la famiglia fosse assolutamente autoctona. 

Avevano sedici anni. Erano maturi e al contempo candidi nell’affrontare le proprie responsabilità. D’altronde la società in cui erano cresciuti si basava ancora su forti valori familiari e spirituali, che i giovani sapevano ben omaggiare. 

Si erano rivolti all’Ajik, il signore rispettabile, su consiglio della madre di lei per un problema nella famiglia di lui. L’Ajik conosceva le energie, quelle buone e quelle cattive, quelle interiori e quelle esterne. L’Ajik sentiva ciò che non veniva detto, vedeva ciò che non veniva mostrato.

L’Ajik sapeva anche curare, ma ci sono cose che non si possono curare se non con la forza della preghiera ed è questo che l’Ajik consigliò prima di tutto.

La famiglia di Komang aveva smesso di pregare, troppo presa dal lavoro e dagli obblighi secolari. Così aveva lasciato la porta aperta agli spiriti maligni, che qui, sull’isola, cacciati da ogni angolo della strada con offerte e mantra consacrati ogni singolo giorno, erano in continua ricerca di un luogo dove albergare. Bastava una dimenticanza dell’oblazione da parte di un ristoratore perché a fine serata una cameriera si mettesse a urlare come indemoniata per poi perdere i sensi; fatale era la negligenza di un lavoratore frettoloso, tanto che l’impudente sventurato si ritrovava coinvolto in un incidente stradale entro fine giornata. Accadimenti ben peggiori si prospettavano per chi adottava uno stile di vita incurante degli dei protettori. 

Un mese prima il padre di Komang si era rotto una gamba investito da una motocicletta. Il giardino di casa aveva assunto un’aura spettrale senza apparente motivo, strane coincidenze avvenivano con sempre maggiore frequenza e Komang non riusciva mai a dormire sonni tranquilli nonostante finalmente la sua bella Anggi avesse accettato di essere ben più della sua migliore amica. 

Sfinito da questa stanchezza impalpabile e inquietato da un vago presentimento, un giorno Komang ebbe l’idea di controllare i video del circuito di sicurezza, che riprendevano ogni vano dell’appartamento durante la notte. 

Se un bule, un occidentale, avesse assistito a una tale scena riguardante se stesso sarebbe precipitato nel panico, soffocato nel suo stesso respiro, aggrappato al buonsenso solo da un istinto razionalistico che avrebbe di sicuro trovato una banale risposta scientifica al caso.

Non era così per Komang né per nessuno dei suoi conterranei, abituati a percepire e a coltivare scrupolosamente il mistero. 

Nemmeno l’Ajik poteva sapere esattamente da dove avesse origine quella sorta di geyser, uno zampillo di fumo emerso dal petto di un Komang dormiente, e vanificato nell’aria sovrastante. Ajik, però, poteva valutare gli errori commessi e prescrivere i giusti rimedi. Scrutava le linee delle mani di Komang e prospettava la sorte, mentre Anggi ascoltava attenta con gli occhi carichi di un amore, che solo ora imparava a conoscere.