ARTICOLO – La hybris nello yoga

ARTICOLO – La hybris nello yoga

Il mese scorso una praticante di Patreon, partecipando alla discussione sulla difficoltà di una sequenza ha scritto:

« … forse servirà ad imparare che non si può pretendere da se stessi più di quanto sia possibile?». 

 

Questa frase mi ha colpito al punto da improntare le lezioni di febbraio sul concetto di limite. In teoria nello yoga si tratta di un concetto che non dovrebbe suonare né nuovo né originale, l’idea chiave dello hatha-yoga moderno [1]  è “non forzare”, e già nei mesi precedenti avevo proposto lezioni per far comprendere come la semplicità e lo stare in una comoda stabilità portino risultati migliori e più duraturi dal punto di vista yoghico. Eppure c’è qualcosa che colpisce in quella frase, perché in fondo, da un certo punto di vista, la troviamo contraddittoria. 

Nella società moderna noi consideriamo il limite un qualcosa da superare, lo carichiamo soprattutto di una valenza negativa, lo vediamo come un ostacolo, un impedimento. Basti pensare alla parola che nell’ultimo anno abbiamo sentito fin troppe volte per via della pandemia: limitazione. 

Il limite è un qualcosa che consideriamo, in un certo senso, come imposto e che con la giusta forza, volontà, ribellione, ecc. possiamo superare.

 

Questo vale anche se il limite viene da dentro di noi, dal corpo o dalla mente. «Se non ti sforzi, non supererai mai i tuoi limiti» è un concetto radicatissimo nella nostra società e riguarda tantissime sfere della vita dallo sport al lavoro, relazioni incluse. 

Per questo è così difficile far passare l’idea che nello yoga non occorra, anzi sia controproducente forzare. Questo però non preclude la possibilità di avanzare o migliorare ed è esattamente il motivo per cui ho voluto andare a fondo nell’analisi e nell’esperienza corporea di questo concetto. 

La lezione dal titolo Capire chi siamo comincia con questo incipit: «Il termine limite ci può aiutare a capire chi siamo, perché è un qualcosa che ci caratterizza, una linea di confine che ci aiuta a definire la nostra identità differenziando ciò che siamo da ciò che non siamo» [2]. 

Anche se non ci sembra, noi costruiamo l’immagine di noi stessi per noi e per gli altri in base a ciò che facciamo e non facciamo, ciò che siamo capaci di fare e ciò che non ci riesce, ciò in cui crediamo e ciò che aborriamo, ecc.

 

Prima ancora di definire il limite psicologico, costruiamo quello fisico, ovvero la distinzione tra ciò che costituisce me e ciò che è fuori di me, e questo avviene in età molto precoce: «I bambini non nascono con questa distinzione, la guadagnano gradatamente assumendo i confini del proprio corpo. Le carezze delle madri servono a delimitare il corpo, e quindi a creare la separazione tra me e ciò che è al di fuori di me, dentro e fuori sono categorie corporee» [3].

Una volta finito di definire il confine fisico in età adolescenziale, si genera una tensione tra la condizione sicura e certa del confine e la voglia di superarlo. La tensione si trasferisce sul piano psichico e  prende due direzioni: da una parte l’angoscia di solitudine e quindi la ricerca di relazione, dall’altra l’insofferenza per l’incapacità di conseguire certi ideali, primo fra tutti l’ideale dell’io, perché il fisico, le circostanze materiali non lo permettono. 

Questa tensione viene alimentata da una società che premia l’ambizione, ma l’ambizione in sé e per sé è anche un valore e non costituisce il problema. Il problema è riconoscere fino a che punto può spingersi l’ambizione e soprattutto in che direzione conviene spingerla. 

L’eccesso di ambizione per gli antichi Greci era sinonimo di

tracotanza (hybris)

ovvero di un atteggiamento presuntuoso e arrogante, che faceva infuriare gli dei. D’altronde, per quanto abbiano dato origine alla filosofia e quindi alla scienza, i Greci mantenevano un atteggiamento cauto verso l’ignoto. L’amore per la conoscenza (philos-sophia) era sempre accompagnata dalla saggezza. Ulisse non si dimostra saggio nel suo voler oltrepassare le Colonne d’Ercole ed è punito per questo. 

Nella stessa epica le sirene sono portatrici di grande conoscenza, proibita ai mortali, che però ne sono attratti e pagano le conseguenze di questa attrazione con il naufragio. Dedalo costruisce ali di cera per Icaro, ma lo ammonisce di non avvicinarsi al Sole. Icaro, inebriato dal potere, vola troppo alto, le ali si sciolgono, lui cade e muore. Aracne, insuperbita dalla propria bravura di tessitrice, sfidò Atena, che, offesa, la trasformò in un ragno.

Inseguire il limite
Posizione della sirena

Se oggi ci ribelliamo all’idea di limite è forse per il mito di Prometeo. Anche lui peccò di hybris rubando il fuoco agli dei per darlo agli uomini, ma lo fece per ribellione, per sfidare l’autorità e per amore verso il genere umano.

Questo immersione nella hybris greca, che nella sequenza yoga proposta avviene col corpo, porta alla citazione finale della lezione:

«I limiti ci definiscono e non solo in termini negativi, di conseguenza è bene conservare un po’ della paura greca davanti al limite ed è necessario interrogarsi davanti ai propri bisogni per non inseguire il limite all’infinito e per investire tutta la nostra grinta in limiti che una volta superati ci possono far sentire realmente bene» [4]. 

Un esempio dalla straordinaria, per quanto tragica vita di Joe Biden, il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, aiuta a contestualizzare questo pensiero. Il giovane Biden era un timido balbuziente. Avendo realizzato che il problema si manifestava soprattutto quando parlava in pubblico, cominciò a partecipare ad ogni tipo di riunione cittadina, da quelle studentesche a quelle di quartiere, e ad ogni riunione prendeva la parola alzando la mano e facendo domande o considerazioni [5]. Il suo metodo funzionò. Superando la balbuzie, Biden non aveva semplicemente ottenuto un riconoscimento, ma aveva superato un problema per lui invalidante e, raggiunto l’obiettivo, la sfida era conclusa. 

In molti altri casi le sfide che ci poniamo riguardano grandi e piccoli record (ad es. correre più velocemente, avere più soldi, ecc.), che una volta raggiunti apriranno la strada a nuovi e più alti obiettivi della stessa natura, in una catena infinita, che magari a volte o in parte può essere utile perseguire, ma che spesso genera irrequietezza e insoddisfazione infinita. Tutto ciò si applica perfettamente anche allo yoga.

 

Capire se è il caso di superare o no i propri limiti fisici o mentali dipende una domanda fondamentale: “Perché sto praticando yoga?”.

 

La risposta può essere molteplice e può anche variare di volta in volta. Si possono addurre motivi prettamente fisici o altamente spirituali, ci sono tante sfumature tra i due estremi e si possono anche ricercare entrambi. Per la mia esperienza, nella maggior parte dei casi le persone praticano per stare bene, sentirsi bene, rilassarsi, conoscere se stessi, fare un lavoro di introspezione, prendere consapevolezza di sé. Quando è così, alla luce del percorso descritto, dovrebbe venire più naturale comprendere che non è forzando le posizioni che si va a stare meglio. Il limite da oltrepassare non è necessariamente un limite di forza o elasticità fisica, ma può essere per esempio il superare la pigrizia, che non fa essere perseveranti o concentrati, o, paradossalmente, superare quell’orgoglio che non fa accettare i propri limiti.

Inseguire il limite
Posizione del beato, che ricorda il volo di Icaro

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  1.  La storia dello yoga è complessa e varia e così sono le evoluzioni che ha subito e che continua a subire la pratica. Per quanto storicamente lo hatha-yoga sia nato come forma di austerità, praticata dagli asceti con mortificazioni anche estreme del corpo, la sua evoluzione ha portato a definirlo oggi come un tipo di yoga relativamente quieto rispetto ad altri stili dinamici o più esigenti dal punto di vista performativo.
  2. Citazione estratta da https://psicologiaapezzi.com/il-limite-superarlo-o-apprezzarlo/.
  3. Umberto Galimberti citato in https://tlon.it/umberto-galimberti-il-rapporto-tra-corpo-e-mondo/
  4. Vedi nota 2.
  5. https://www.dacostaacosta.net/2020/03/21/6-joe-biden/

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