ARTICOLO – Dove sta la felicità

ARTICOLO – Dove sta la felicità

«La felicità è il gusto dell’infinito, perché ciò che è limitato non può dare felicità. Ma bisogna desiderare di comprendere l’infinito»[1]

 

Durante la scuola di formazione in India in una lezione che indagava il concetto di felicità ci presentarono questo diagramma [2] : 

 

 

L’assunto di base è l’idea che la felicità fosse attribuibile ad un oggetto che dà piacere o che soddisfa uno o più dei cinque sensi. La tesi era facilmente confutabile per una serie di motivi: 

  1. I piaceri dei sensi sono soggettivi, dunque gli oggetti non possono essere di per sé portatori di felicità. 
  2. I piaceri dei sensi dipendono dallo stato d’animo della persona (se sono triste non avrò voglia di mangiare neanche il mio piatto preferito).
  3. Se un oggetto porta piacere, il piacere dovrebbe aumentare con l’aumentare della quantità dell’oggetto stesso o della sua fruizione, ma spesso avviene il contrario come è appunto mostrato nel grafico sopra. In sostanza se mi piace il gelato, mangiare enormi quantità di gelato dovrebbe aumentare la mia felicità, ma invece sviluppo disgusto o quanto meno noia verso il gelato stesso. 

Dunque la felicità non può trovarsi negli oggetti dei sensi, quanto meno non vi si può trovare la felicità duratura. Dove si trova allora la felicità? È proprio da questa domanda che parte la sequenza proposta nel mio audio “La felicità nello spazio”.

La lezione indiana citata sopra risolveva il dilemma sempre a partire dagli oggetti dei sensi: non è il gelato in sé che mi procura felicità, ma quell’attimo in cui gustando per la prima volta il gelato la mente si ferma, perde qualsiasi confine e entra in uno stato di totale assenza di pensieri. La razionalizzazione dell’esperienza sensoriale avviene infatti in seguito al vissuto dell’esperienza stessa. Prima “sento”, poi penso a cosa ho sentito. 

Quel momento senza pensieri è un vuoto senza confine, uno spazio mentale illimitato e se si vuole comprendere l’origine della felicità occorre comprendere la natura di questo vuoto. Le tradizioni orientali hanno fatto di questo tema il loro principale campo di indagine e della meditazione lo strumento fondamentale per la ricerca. La meditazione è infatti il modo per estendere la durata di questo vuoto, che normalmente è percepibile solo per pochissimi istanti. Non a caso tutte le scuole di meditazione sostengono che essa porta ananda, ovvero gioia, beatitudine, e quindi felicità. 

L’infinito è ciò in cui non si vede nient’altro, non si sente nient’altro e non si conosce nient’altro, mentre la presenza della dualità è caratteristica di ciò che è limitato. L’infinito è immortale, ciò che è limitato è mortale o temporaneo”[3] .

Per l’essere umano è difficile, se non impossibile, concepire l’infinito così come è difficile concepire pienamente l’idea di Dio: possiamo postulare qualcosa che è diverso da noi, non finito appunto, non mortale, non legato a uno spazio-tempo, ma non possiamo veramente comprendere a livello cognitivo una tale condizione. La vista è un’ottima metafora al riguardo: sappiamo che ciò che si estende intorno a noi sulla Terra e nello Spazio è infinito, ma il nostro sguardo riesce a cogliere solo una piccola parte di ciò che ci circonda. 

Il vuoto che si coglie nella meditazione è un assaggio di infinito o, per i credenti, un contatto con Dio. La caratteristica di questo stato è il suo essere al di là di ogni limitazione fisica e soprattutto di ogni dualità. 

La dualità, ovvero il contrasto degli opposti è da sempre oggetto di dibattito anche della filosofia occidentale. Uno dei massimi esponenti del tema della dualità fu Eraclito, filosofo vissuto a cavallo del V sec. AEC: 

«La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc.) che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l’uno dell’altro, poiché vivono solo l’uno in virtù dell’altro: ciascuno dei due infatti può essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. Così, ad esempio, una salita può essere pensata come una discesa da chi vi si trova in cima. 

Tra i contrari si crea una sorta di lotta. In questa dualità, questa guerra fra i contrari (polemos) in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vide quello che lui definiva il logos indiviso, ossia la legge universale della Natura» [4]. 

Anche la cultura orientale postula questo logos indiviso ed è proprio ciò che cerca di raggiungere con la meditazione. 

Per superare gli opposti occorre conoscerli ed è ciò che lo yogin fa non solo con la meditazione su oggetti diversi, ma anche con gli āsana. Basti pensare al risultato che, secondo gli Yoga-sūtra, si ottiene dalla perfetta esecuzione di un āsana: “la mancanza di attacchi da parte degli opposti” [5]. È vero che nel testo ci si riferisce in particolare a una seduta meditativa, ma è vero anche che da questo antico trattato è presa la definizione di āsana ancora oggi in uso: “stabile e comodo – mediante il rilassamento dello sforzo e la meditazione sul senza fine” [6].

Ogni āsana prevederebbe la meditazione sull’infinito, mentre in pratica ci mette costantemente a confronto con i nostri limiti.

Attraverso l’āsana vedo e sento il mio corpo, lo percepisco a volte forte, a volte debole; certe posizioni mettono in luce delle parti di me fisiche e mentali, altre le nascondono; certi āsana sono vissuti come maschili, altri come femminili; alcuni mi aprono al mondo, altri invogliano la chiusura e l’introspezione; qualcuno è attivante, qualcun altro calmante; qualcuno piacevole, qualcun altro disagevole; alcuni mi fanno sentire tutt’uno col corpo, altri sono divisivi come se il corpo fosse altro da me.

La felicità è ...
Chataka-āsana, una posizione di apertura

L’āsana è un terreno perfetto, una palestra ideale per esercitare e comprendere le dualità. Solo dopo aver padroneggiato l’āsana, dopo aver superato la dualità che necessariamente mette in gioco, ci si sente davvero bene nella posizione. Solo a questo livello ci si dimentica del corpo e si trascende con lo spirito. La postura è perfetta quando raggiunge l’infinito. 

La felicità è ...
Pasha-āsana, una posizione di raccoglimento e introspezione

Questo stato ideale oltrepassa anche i confini del mondo sottile. Non si tratta di unire I e Pingala, la luna e il sole, come vuole lo hatha-yoga, ma di trascenderle, di immergersi in quel logos eracliteo che è il sostrato di tutta la dialettica dell’esistenza:

Lo spazio permette il movimento degli atomi e quello dei corpi celesti più giganteschi, come il sole e la luna. Anche il cielo, che non ha confini, è compreso nello spazio, e come il vento e l’aria, il cielo non può superare i suoi limiti” [7]. 

La felicità è ...
Respiro da una sola narice per stimolare Idā o Pingala

Per arrivare oltre il cielo, a livello dello spazio, occorre portare il corpo a un livello profondo di rilassamento con la mente aperta a lasciare andare la razionalità degli opposti per accogliere quel vuoto indefinito che dà l’esperienza della felicità.  

“Lo spazio eterico ci permette di chiamare e ascoltare, di ricevere risposta e di provare felicità e le altre emozioni. Ogni cosa nasce e cresce nello spazio. Onora lo spazio. Chi onora lo spazio come Brahman raggiunge vasti mondi spaziosi, pieni di luce e senza limiti, e diventa libero di agire come vuole”[8].

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  1. Chandogya Upanishad, 7.23.1
  2. Basis of Yoga – Bliss, Dr. H.R Nagendra in Yoga, The Science of Holistic Living, Vivekananda Kendra Patrika, 1996.
  3. Chandogya Upanishad 7.24.1
  4. https://it.wikipedia.org/wiki/Eraclito
  5. Yoga-sūtra, II. 48
  6. Yoga-sūtra, II. 46-47
  7. La Bhagavad-Gītā così com’è, commento di Swami Prabhupada al verso 6, cap. 9.
  8. Chandogya Upanishad, 7.12.1-2