Anni fa ho ideato e realizzato uno spettacolo teatrale che verteva intorno alla famosa questione:
“Se un albero cade nella foresta e nessuno è presente, fa rumore?”
Si tratta di un tema caro alla fisica quantistica e la risposta è no.
«Quando l’albero cade, si creano rapide variazioni di pressione dell’aria, che si diffondono viaggiando attraverso il mezzo circostante a circa 750 miglia all’ora. Facendo così, perdono la loro coerenza finché la stabilità di base dell’aria è ristabilita. Le pulsazioni dell’aria di per sé non costituiscono alcun tipo di suono, cosa ovvia perché se viaggiano a 15 impulsi al secondo rimangono silenti indipendentemente da quante orecchie siano presenti. Un osservatore, un orecchio, e un cervello sono necessari per l’esperienza del suono tanto quanto le pulsazioni dell’aria. Il mondo esterno e la coscienza sono correlati. E un albero che cade in una foresta vuota crea solo pulsazioni di aria silenziosi, piccoli sbuffi di vento senza alcun suono» [1].
Molto prima dell’analisi del suono, Newton dimostrò come anche i colori in realtà esistano solo per un effetto di rifrazione della luce. Il mondo là fuori è tristemente grigio e il colore non è altro che «la percezione visiva delle varie radiazioni elettromagnetiche comprese nel cosiddetto spettro visibile» [2].
Se gli scienziati nell’ultimo secolo hanno abbracciato e confermato questa teoria [3], l’idea generale era comunque già presente in diversi filosofi dei secoli precedenti, negli empiristi del diciassettesimo secolo in particolare (Hume, Locke e Berkeley, a cui alcuni attribuiscono la formulazione del dilemma dell’albero nella foresta), e ampiamente sentita nelle antiche tradizioni sapienzali d’Oriente.
«La vita materiale è nella mente (citta) soltanto, perciò bisogna sforzarsi di purificare la mente: ciò che la mente diventa costituisce la nostra posizione. Questo è il segreto eterno» [4].
Si apre con questa citazione delle Upanishad la mia lezione “Il colore della mente”. Dando per assodata la teoria presentata sopra, la riflessione parte non tanto dal quesito “se” creo il mondo materiale con la mente, ma da quanto e come lo creo. È fuor di dubbio ad esempio che le emozioni si creano nella mente: un evento di per sé non è né triste, né allegro, ma dipende da come lo vivo. Basti pensare a quando si guarda un documentario sugli animali: posso empatizzare con la zebra che fugge dal morso del leone, ma posso anche provare pena per il leone che muore di fame.
Dunque se le percezioni e lo stato emotivo si creano nella mente, ecco che ho già stabilito la creazione mentale di una buona percentuale della mia conoscenza e del mio contenuto cognitivo. In sostanza il mondo che vedo e che vivo lo creo con la mente. A questo punto il dilemma si sposta su un altro piano, ovvero: se ciò che vedo e vivo non mi piace, posso creare con la mente un mondo che mi piace di più?
«È la mente che crea la vita mondana, perciò la purificazione deve avvenire nella mente. Il colore della mente fa sembrare colorate le cose: ecco il segreto eterno» [5].
Non posso certo cambiare i colori delle cose, ma posso lavorare su come vivo le cose, cambiare le mie reazioni emotive alle cose o selezionare e affinare il mio contenuto cognitivo, la mia conoscenza. Per questo, dicono le Upanishad, occorre purificare la mente. Per farlo posso agire a vari livelli.
Sul piano prettamente fisico posso far funzionare meglio il cervello disintossicando il corpo (la serie di pavanamukta sblocca i ristagni di tossine nelle articolazioni), stimolando i nervi cranici (con gli esercizi per gli occhi), ossigenando il cervello (con le posizioni invertite e le respirazioni), stabilizzando gli emisferi e la concentrazione (con le posizioni di equilibrio). A questi stimoli si possono aggiungere quelli legati alla fisiologia mistica dello yoga, per cui per esempio sollecitando il coccige si lavora anche sul sesto chakra, che è la sede della chiarezza mentale, non a caso detto “il centro di comando”.
Su un piano psichico posso cambiare prospettiva (con le posizioni invertite), con uno sguardo verso l’interiorità (come nelle chiusure), ispirandomi alla visione aperta su tutti i lati dei saggi (la maggior parte delle torsioni sedute porta nomi di saggi), o ancora stabilizzandomi nella centratura che è data solo quando la mente è stabile e chiara (lo si sperimenta bene nelle posizioni di equilibrio ineseguibili senza concentrazione).
È chiaro che la pratica è necessaria, ma non sufficiente per il cambiamento auspicato. La pratica però mette in atto qualcosa che è comunque fondamentale per la conoscenza ordinaria: il corpo. «Non sono capace di immaginare un evento senza la mia ricostruzione della realtà… significa che continuo a immaginarmi presente di fronte all’evento anche se non lo sono… Il corpo mi aiuta a entrare in contatto con la realtà, a elaborare una mia visione della realtà. Una realtà che io stesso creo. La mia verità, la mia realtà» dicevo nel mio spettacolo.
È attraverso il corpo che creo la mia conoscenza del mondo, e quando divengo consapevole di questo è sempre attraverso il corpo che posso cambiare questa conoscenza, ampliarla o persino superarla. La conoscenza di cui parlano i testi dello yoga infatti, è una conoscenza che va oltre quella del piano ordinario e che è raggiungibile solo da una mente purificata. A sua volta la conoscenza è ciò che più di ogni altro mezzo mi permette di purificare la mente:
«E’ la conoscenza che purifica (i saggi), e tra le cose che purificano, la conoscenza è certo la più potente» [6].
Questo circolo virtuoso apparentemente impenetrabile si risolve proprio con la pratica. La pratica sublima la conoscenza e apre spiragli verso l’indicibile attraverso l’esperienza dapprima fugace, ma poi sempre più duratura, di dimensioni ulteriori rispetto a quelle ordinarie. Tramite il prānāyāma, per esempio, dice Patanjali, è distrutto lo schermo di luce (che sia lo schermo a mostrarci le rifrazioni invece che la luce stessa?); nella meditazione soggetto e oggetto si fondono portando la percezione a uno stadio ultimo di penetrazione degli oggetti; nel rilassamento profondo il corpo è abbandonato al punto da essere trasportato al di là dei sensi. In tutte queste esperienze non è raro incontrare effetti visivi e aperture di luce.
D’altronde se la percezione visiva è solo un effetto secondario della luce, intuirne la causa primaria può coincidere con la visione di un mondo luminoso. D’altronde : «Il Brahman è come la luce del giorno dopo che il sole è sorto, come il profumo dei fiori sbocciati: si sperimenta direttamente quando la percezione della realtà è stata purificata» [7].
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- Mia libera traduzione dal libro Biocentrism di Robert Lanza. La versione italiana di questo libro è uscita pochi mesi dopo la realizzazione del mio spettacolo Perception, che da questo libro trae ispirazione.
- https://it.wikipedia.org/wiki/Colore.
- Cfr. Wheeler, fisico statunitense: « Nessun fenomeno è un fenomeno reale a meno che non sia un fenomeno osservato»; Wigner, fisico ungherese, Nobel per la fisica nel 1963: «Non è possibile formulare le leggi della fisica in un modo totalmente coerente senza riferimento alla coscienza (dell’osservatore)».
- Satyayani Upanishad, 3.
- Maitreya Upanishad, 1.9.
- Brahma Upanishad, 12.
- Mahata Upanishad, 5.110.