Nella cosiddetta “yoga terapia” si prendono in considerazione vari livelli dell’essere umano secondo quello che è conosciuto come panchakosha, ovvero la teoria vedantica dei cinque corpi (pancha = cinque, kosha = strati). Spiegati per la prima volta nella Taittiriya Upanishad (VI sec. AEC), i kosha rappresentano diversi piani di esistenza:
- Annamaya kosha (anna = cibo), il livello più grossolano costituito dal corpo fisico, fatto di tessuti e sangue.
- Pranamaya kosha, un livello leggermente più sottile che si può far coincidere con la fisiologia del corpo (lo stomaco e l’intestino fanno parte dell’annamaya kosha, ma il processo della digestione è sottile e intangibile e avviene appunto su un piano energetico, quello del prāna).
- Manomaya kosha (manas = mente), il piano della mente e delle emozioni.
- Vijnanamaya kosha (vijnana= con conoscenza), il piano dell’intelletto.
- Anandamaya kosha (ananda = beatitudine) , il livello più spirituale, più sottile e profondo.
La luce agisce su di noi a ciascuno di questi livelli. Nell’articolo precedente ho discusso gli effetti positivi della luce del Sole sulla psiche per via soprattutto di cambiamenti fisiologici: la vitamina D, la serotonina, ecc… Questi effetti sono attivi sui primi due kosha: l’annamaya e il pranomaya. Naturalmente influenzano anche la psiche, come dicevo nell’articolo, perché tutto è collegato. La mente però può essere illuminata anche da altri fattori.
«Yajnavalkya spiegò che l’essere umano viene illuminato non solo dal sole e dalla luna, ma anche dal fuoco e dalla parola, e soprattutto dalla luce del Sé, del Purusha, che si identifica con l’intelletto e che siede in mezzo ai sensi»[1].
Pensiamo a come ci si sente sollevati quando la luce della luna illumina le tenebre e come questo sollievo deve essere stato molto importante per i nostri avi, sprovvisti di illuminazione artificiale.
Il fuoco ha lo stesso scopo di contrastare l’oscurità, ma si carica anche di una connotazione di calore emotivo. Basti pensare al focolare domestico, usato per cucinare (il cibo in psicanalisi è legato simbolicamente alla madre) e per scaldare. Anche la luce del sole scalda e illumina, ma non ha la stessa accezione simbolica del fuoco.
La tradizione del mantra sottolinea da sempre l’importanza della parola e la sua capacità di illuminare l’anima. La preghiera ha questa forza, ma anche le parole giuste al momento giusto: quante volte capita di sentirsi sollevati, letteralmente illuminati da parole che qualcuno ci ha detto per conoscenza, per conforto o per affetto?
È proprio dall’atto di consapevolezza su ciò che porta luce dentro di noi che prende le mosse la lezione “La luce dentro”. La luna, il fuoco, la parola illuminano l’essere al piano del manomaya e del vijnanamaya kosha e naturalmente questo si ripercuote positivamente sugli altri kosha, perché, di nuovo, tutto è collegato.
C’è un’altra luce che illumina il vijnanamaya kosha e questa ha origine dentro di sé, nell’anandamaya kosha, che splende di luce propria.
«La mente è per natura immersa nella luce spirituale latente, che come il suono spirituale latente dimora nell’Anahata chakra» [2].
Secondo quanto affermato nella Chadogya Upanishad la luce dell’Anandamaya kosha dimora nel cuore, sede anche del suono primordiale dell’universo (anahata letteralmente significa “non colpito”, ovvero un suono che emerge spontaneamente), che coincide con la sillaba Om e presumibilmente con il nada, il suono di cui si parla nella mistica dello hatha-yoga.
Una leggenda indiana vuole che Brahma nascondesse questa luce divina nel cuore, perché riteneva il cuore più prezioso e sicuro, in quanto il più difficile da raggiungere per un essere umano [3].
In effetti il cuore, così come l’inconscio, è difficile da sondare e troppo spesso è sopraffatto dalle decisioni della mente razionale, del super-Io, dai condizionamenti familiari, sociali, ambientali. Nel cammino dello yoga è implicito un percorso di conoscenza di sé, dei propri angoli nascosti. Questo è l’intento della sequenza proposta nella lezione audio: aprire il cuore, muovere il corpo mostrando la disponibilità a scoprire nuove parti di sé, accettare con umiltà i propri punti deboli per avere una piena conoscenza di se stessi. Solo quando si siano superate le sovrastrutture che coprono la propria vera natura, allora si può accedere anche a quella parte di sé che è in comunione con l’universo intero e che apre le porte della beatitudine.
«La luce del Brahman che risplende al di sopra del cielo, sopra ogni cosa, nei mondi supremi e incomparabili, si trova all’interno del corpo dell’essere umano e può essere vista purché si possa percepire il calore emanare dal corpo, può essere udita purché chiudendo le orecchie si oda un suono come il rumore di un carro, il muggito di un toro o il rombo delle fiamme. Bisogna meditare vedendo e ascoltando questa luce: in questo modo si acquisisce bellezza e influenza» [4].
La bellezza di un volto illuminato e il carisma di una voce che risuona con la voce dell’universo, una voce che emerge dal cuore, sono i risultati di questo percorso. La fonte di luce che li genera si trova nel cuore e porta quella positività che solo la luce può dare all’essere umano, perché nel mondo dell’anandamaya kosha, questa luce non tramonta mai:
«La luce divina che illumina il mondo risplende sempre: è il testimone del mondo, il Sé universale, la cui forma è pura e trascendentale, il sostegno e la base di tutti gli esseri, la cui natura è pura consapevolezza» [5].
__________________________________
- Brihadaranyaka Upanishad , 4.3.4-7.
- Chandogya Upanishad, 3.13.1-7.
- https://www.youtube.com/watch?v=rc6lGc59McI per la leggenda in un video, altrimenti http://blog.timeoutintensiva.it/varie/out-of-border-in-cerca-di-noi-stessi-antica-leggenda-indu/ per leggerla in un articolo.
- Mandala brahmana Upanishad, 5.1.
- Katha Rudra Upanishad , 11.12.