«All’inizio di tutto questo c’era soltanto il non-manifestato, e dal non-manifestato emerse ciò che è manifestato.” Il Brahman creò sé stesso da sé stesso, perciò viene chiamato ‘nato da sé stesso’. Questo Svayambhu è la fonte della gioia, perché chi entra a contatto con questa dimensione prova una grande felicità. Nessuno in verità potrebbe inspirare o espirare se questa felicità non si trovasse nello spazio supremo all’interno del cuore. È questa felicità (anandamaya) che dà entusiasmo alle persone» [1].
La parola Svayambhu significa appunto “nato da se stesso” ed è un epiteto che viene usato per il Brahaman, ma anche per le sue prime e più importanti forme, quelle della Trimurti, la trinità indù: Brahma – il Creatore, Visnhu – il mantenitore, Shiva – il distruttore. Queste tre divinità sono gli aspetti dei cicli vitali, che sempre sono stati e sempre saranno.
Nella concezione indiana dell’universo, la manifestazione stessa subisce un ciclo infinito di nascita, morte e rinascita, ovviamente con tempi incommensurabilmente più lunghi di quelli umani.
Da dove è scaturito questo ciclo non è dato sapere e di fatto per gli indiani esso è nato da se stesso. Il Brahman essendo di fatto il ciclo stesso non è sottoposto alle sue leggi circolari, ma solo all’eternità. In questa eternità senza dimensioni si trova la fonte della gioia.
Dunque scopo dell’ascesi (e quindi dello yoga) è raggiungere una condizione in cui si possa sperimentare almeno per un momento la coscienza del Brahman stesso, quell’essere al di là di ogni circolarità, al di là del samsara, la ruota delle rinascite, per sperimentare il senso di eternità e quindi di gioia.
Per “sentire” con la coscienza di un altro, occorre sviluppare empatia e non si sviluppa una vera, genuina empatia finché non si conosce a fondo se stessi e non si impara ad osservare e ascoltare gli altri. Questo vale tra le persone, tra gli esseri viventi, e vale anche tra lo yogin e il Brahman.
Il percorso dello yogin è innanzitutto quello di conoscere se stesso.
Contemporaneamente egli deve impegnarsi a conoscere ciò che lo circonda, perché osservare e ascoltare il Brahman significa osservare e ascoltare tutto ciò che è intorno, ogni singolo aspetto della manifestazione.
«Lo stesso Brahman che esiste da solo all’inizio della creazione e della dissoluzione dell’universo assume una varietà di poteri e appare come il Signore supremo attraverso il misterioso potere di Māyā» [2].
Non è un caso se Patanjali dedica un intero capitolo degli Yoga-sūtra all’enumerazione dei diversi oggetti di meditazione. E non è un caso che queste concentrazioni apportino allo yogin le siddhi, ovvero i poteri. L’apparenza della manifestazione stessa (Māyā) è un potere di Brahman, così come lo sono tutti i suoi aspetti.
Alcuni di questi aspetti, o poteri, sono quelli rappresentati nella lezione “Nato da se stesso”. Si tratta di un piccolo viaggio nelle forme del Brahman.

Prendere coscienza di ciò che ci sta intorno significa anche essere aperti e disponibili a ciò che troviamo. In sostanza occorre essere aperti alla vita. Quest’apertura è solitamente simboleggia con l’apertura del torace. Basti pensare ai guerrieri o agli eroi che affrontano le difficoltà a petto aperto. Nel torace è racchiuso il cuore, per questo si dice che occorre “aprire il cuore alla vita”.
Nella mitologia indiana il cuore non è solo la sede del coraggio e dell’entusiasmo verso la manifestazione, ma è anche il luogo dove è conservato il segreto dell’esistenza.
Come recita il verso in apertura quella fonte di gioia si trova all’interno del cuore. Dunque lo yogin deve raggiungere il proprio cuore per immedesimarsi nel Brahman. Come lo raggiunge? Inspirando e espirando, ma anche cantando la vibrazione che corrisponde al Brahman:
«L’eterna sillaba Om trascende passato, presente e futuro, è l’inizio di ogni cosa e la fonte dell’estasi suprema. Quello stesso Om che conosciamo come Atman è il Brahman. Il triplice Atman (l’Om, il Prana e l’Eterno) sono il Brahman supremo» [3].
Chi pratica, sa bene che dopo il canto dell’Om, così come alla fine di ogni japa [4], si instaura nella mente uno spontaneo senso di quiete, un silenzio naturale e piacevole, in cui la mente tace e i pensieri finalmente sono dileguati. È in questo silenzio che si trova l’accesso al cuore e si entra nella coscienza universale del Brahman.
«Com’è possibile descrivere il Brahman a parole? Non è possibile descriverlo come si descrivono gli oggetti dell’universo materiale, perché trascende le descrizioni. Il Brahman è silenzio e si comprende attraverso il silenzio. Non è il silenzio di chi non ha ancora sviluppato la capacità di esprimersi – come si vede nei bambini – ma che ha ancora espressioni latenti da esternare. E’ il silenzio senza parole di chi conosce il Brahman. La dimora solitaria in cui l’Uno è senza secondi sia all’inizio che alla metà e alla fine, pervade l’universo intero» [5].
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- Taittirya Upanishad , 2.7.1.
- Svetasvatara Upanishad, 3.1.
- Narada parivrajaka Upanishad, 8.7.
- La ripetizione del mantra.
- Teja bindu Upanishad, 1.21-23.