ARTICOLO – Felicità oltre misura

ARTICOLO – Felicità oltre misura

Lo yoga è un cammino di ricerca, uno strumento, e una condizione dell’essere che rappresenta il fine e l’oggetto rispettivamente di quel cammino e di quello strumento. Secondo la tradizione yoghica, il mondo terreno è intrinsecamente legato alla sofferenza tanto che una delle definizioni più conosciute di yoga recita:

«Lo yoga è separazione dall’unione con la sofferenza» [1].

In questo senso lo yoga è anche separazione dalla vita terrena, almeno a livello della coscienza. 

Nella vita comune non può esserci vera felicità, men che meno una felicità duratura. Anche nei suoi aspetti più piacevoli la vita nasconde insidie che riportano lo stato dell’essere a una perenne insoddisfazione [2]. È solo nella condizione yoghica che si può sperimentare una forma di beatitudine autentica e incondizionata.

Questa beatitudine è detta ananda ed è considerata la felicità suprema. 

«Un uomo ricco e dal corpo perfetto, che ha una posizione di dominio nella società e può disporre a piacere di qualsiasi gratificazione sensoriale esistente sulla terra rappresenta la misura di felicità sperimentata nella perfezione del mondo umano. Questa unità di misura moltiplicata 100 volte dà la misura della felicità che si può ottenere nel mondo dei Pitri, e così via ogni livello successivo moltiplicato per 100 dà la misura della felicità che può essere ottenuta sui mondi dei Gandharva, degli Upadeva, dei Deva, dei Veda, di Prajapati, o di Hiranyagarbha. E la felicità suprema è quella che si sperimenta sul livello del Brahman» [3].

Raggiungere quel livello non è affatto facile. Tanto che il percorso yoghico è generalmente il percorso di una vita. Consolante è almeno il fatto che ogni livello dona un aumento della felicità e questo è riscontrabile facilmente da tutti i praticanti di yoga: per quanto non si raggiunga né in una sessione, né in pochi mesi di pratica e nemmeno in anni la cosiddetta “illuminazione”, si ottengono dei benefici oggettivi sul piano fisico, mentale e spirituale che diventano sempre più ampi e consolidati man mano che si mantiene la pratica negli anni. 

La pratica è qualcosa di necessario, ma non sufficiente.

Senza una saggezza che la guidi, può portare a degli effetti opposti. Basti pensare alle forzature negli āsana che causano problemi ossei e muscolari, all’eccesso di pratica che può portare scompensi endocrini e nervosi, per non parlare dei danni di un prānāyāma sbagliato. La saggezza della pratica consiste nella giusta dose di disciplina e moderazione. 

«Nessuno può diventare uno yogin, o Arjuna,  se mangia troppo o troppo poco, se dorme troppo o troppo poco. Colui che è misurato nel mangiare e nel dormire, nel lavoro e nel riposo può, con la pratica dello yoga, alleviare le sofferenze dell’esistenza materiale» [4]. 

È questa moderazione, questa capacità di prendere le giuste misure che assicura l’avanzamento nel cammino yoghico.

Ed è proprio sul sentirsi a proprio agio nella moderazione che vuole lavorare la lezione audio “La misura interiore”. 

Per un Occidentale questo concetto può suonare come una novità o un qualcosa di contraddittorio. Si è abituati a sforzarci per ottenere dei risultati, a pensare che solo faticando intensamente si può giungere alla meta. Bisogna ammettere che questa visione accumuna gli Occidentali con gli hatha-yogin. Hatha significa sforzo e lo hatha-yoga era concepito proprio come una serie di austerità che servivano a disciplinare la mente e il corpo. Si trattava e si tratta ancora oggi di austerità praticate da certi ordini di asceti. 

Nel contesto del solo Raja-yoga però, come anche del Buddismo, le austerità non sono così estreme. Una disciplina è sempre fondamentale. Non può esserci miglioramento senza disciplina e non può esserci nemmeno un cammino senza la misura dei passi. La disciplina si deve però muove all’interno di un campo, le cui misure saranno adattate e adattabili all’individuo che lo occupa. 

Sayanabuddha-āsana, posizione di riposo del Buddha, insegna a trovare la giusta misura tra rilassare e mantenere l’equilibrio, a tenere una quieta vigilanza.

Trovare le giuste misure del proprio campo, ovvero trovare le giuste misure nella propria vita significa raggiungere un equilibrio tale da mantenere una condizione di pacata serenità.

L’equilibrio fisico ci tiene lontani dai disagi associati alle malattie, quello mentale dalle fluttuazioni emotive, quello spirituale dal senso di insoddisfazione e vacuità.

Continuando con la disciplina si arriva prima o poi a un livello di spontaneità che supera la disciplina stessa, un po’ come accade con i ballerini, e con tutte le arti in realtà. Quando si vede ballare o dipingere un professionista, tutto sembra naturale, non si vedono, se non ragionandoci, gli anni di allenamento, studio e lavoro che hanno portato a quel livello.

A un certo punto si trascende la misura stessa. 

«Io sono oltre la misura e colui che misura e ciò che è misurato. Io sono Shiva» [5].

Lo yoghin arriva all’identificazione con Shiva e in quello stato trova la felicità suprema. Questa va al di là di ogni ragionamento, di ogni gratificazione sensoriale. La moderazione su cui e con cui ha lavorato, nella quale si sente ora perfettamente a suo agio e che mantiene senza sforzo, diviene pace mentale. Quella pace mentale corrisponde alla soddisfazione interiore, quella salda soddisfazione che persiste nonostante le tempeste della vita, che rimane perché è profonda e radicata.

«Quando tutti i discorsi e le costruzioni mentali sbiadiscono, rimane la consapevolezza del Brahman, il Param Atman che è la luce della coscienza, senza inizio né fine. Il saggio ha la luminosa certezza che questa è la giusta conoscenza. La soddisfazione interiore nella conoscenza dell’Atman come tutto ciò che esiste è la giusta misura della realizzazione spirituale, in tutto il mondo» [6].

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  1. Bhagavad-gītā, 6.23.
  2. Si veda anche il mio articolo “Dove sta la felicità”.
  3. Brihad aranyaka Upanishad, 4.3.33.
  4. Bhagavad -gītā, 6.16-17.
  5.  Maitreya Upanishad, 3.13.
  6. Annapurna Upanishad, 2.34-36.