“Chi si accontenta, gode” è un proverbio della tradizione popolare che richiama un ideale caro a praticamente tutte le dottrine religiose e filosofiche, d’Oriente e d’Occidente. In Oriente il concetto di distacco, declinato nelle varie dottrine, è la chiave dell’illuminazione dei saggi.
In Occidente, sebbene la società capitalista basi la sua struttura sul desiderio, i filosofi, gli psicologi e persino gli economisti teorizzano che lo stimolo continuo al desiderio sia il motivo più grande di frustrazione e irrequietezza.
«La coltivazione e l’espansione dei bisogni è l’antitesi della saggezza. È anche l’antitesi della libertà e della pace. Ogni aumento dei bisogni tende ad aumentare la propria dipendenza da forze esterne sulle quali non si può avere il controllo, e quindi aumenta la paura esistenziale. Solo attraverso una riduzione dei bisogni si può promuovere un’autentica riduzione di quelle tensioni che sono le cause ultime della lotta e della guerra»[1].
Una tale consapevolezza non è giunta in Occidente in seguito alla diffusione delle dottrine asiatiche, ma era già presente al tempo degli antichi Greci e caratterizza molta parte della storia della filosofia e appunto anche la saggezza popolare. Evidentemente la curiosità hanno messo da parte questa avvedutezza a favore di una spinta intellettuale all’esplorazione, che è poi la chiave del progresso. Il desiderio e il voler soddisfare bisogni sempre più complessi in questo senso ci è stato utile.
Accade però che la complessità sia giunta a un punto tale da rendere le vite individuali difficili e impegnative. È forse questa una delle cause di tanto interesse verso l’Oriente e della ricerca di una vita meno complicata in onore della gioia della semplicità.
Secondo la cultura orientale non vi sono dubbi: l’unica soluzione sta nel recidere la radice del desiderio.
Il mezzo non è necessariamente netto né tantomeno traumatico. Un allenamento costante e sincero, che porti continuamente l’attenzione verso l’interno finisce col tempo per affievolire la portata di certe attrazioni, rende consapevoli che si può vivere con molto meno, rende indifferenti ai giudizi altrui.
Tutto questo è ben visibile anche nella pratica yoga. Lo yoga, che auspica un ridimensionamento dell’ego a favore di una coscienza universale, è spesso vissuto come una manifestazione di eccellenza: fisica, morale, spirituale. Si onorano la flessibilità, la forza, l’ampia capacità respiratoria o quella di concentrazione, la saggezza. Ciò avviene, ahimé, sia nei principianti che nei cosiddetti “avanzati”, sia in Occidente che in Oriente. L’India annovera molti esempi di sedicenti guru che si atteggiano a portatori di saggezza. Deve essere sempre stato così, se anche i testi antichi sentono il bisogno di affermare che non è l’aspetto esteriore che rende tale uno yogin:
«Indossare (un particolare tipo di) vestiti non porta successo; né parlarne (dello Yoga). Solo la pratica porta il successo; questa è indubbiamente la verità» [2].
Una persona che abbia raggiunto un certo stato interiore non ha più niente da mostrare, non ha interesse nel mostrarsi:
«Quando si è stabilito al livello più alto dello yoga, il saggio non ha più bisogno di simboli esteriori, perché il filo interiore lo mantiene sempre perfettamente puro» [3].
Ovviamente non è solo una quesitone di esteriorità. Il guadagno maggiore dello yogin sta nella soddisfazione interiore:
«Questa potenza vivente risplende in modo differente nei vari esseri: sapendo questo, una persona illuminata non ha più bisogno di cercare la soddisfazione altrove. Trova la perfetta felicità e il perfetto piacere nell’Atman, ed è concentrato nella vita spirituale: questa persona è onorata tra coloro che conoscono il Brahman» [4].
Lo scopo dello yoga sembra essere proprio questo.
La realizzazione spirituale porta alla felicità per il semplice motivo che non si avverte più il bisogno di nient’altro.
La condizione di ananda, termine tradotto come beatitudine, non è una condizione di gioia suprema, la risata a bocca aperta e gli occhi ridenti che associamo ad una persona felice, ma di totale appagamento. Non si dice, sempre nella saggezza popolare, di uno che è sereno che se ne sta “tranquillo e beato”. La beatitudine della realizzazione yoga è esattamente questo.
Per raggiungere questo stato servono anni di disciplina a tutto tondo, uno stile di vita che è orientato a questo scopo in tutto e per tutto – che poi è il significato di brahmacharya. Man mano che lo yogin avanza nella sua trasformazione verso la contentezza, può via via abbandonare le pratiche che non hanno più ragione di essere, che hanno concluso la loro funzione di esercizio per il corpo e per la mente:
«Coloro che sono già una sola cosa con i mondi attraverso la consapevolezza, non hanno bisogno di celebrare rituali. Coloro che hanno dubbi si impegnino a riflettere: io non ho dubbi e non ho bisogno di riflettere. Se fossi soggetto all’illusione certamente potrei meditare, ma poiché ho superato l’illusione, non ne ho più bisogno. Non ho bisogno di concentrarmi perché non ho distrazioni: sia la concentrazione che le distrazioni non sono che modificazioni della mente» [5].

Un simile livello di stabilità è molto raro e molto poco plausibile in una società moderna, ricca di stimoli. Per lo Yoga di Patanjali, è fattibile solo al livello più alto che uno yogin possa raggiungere, quello del dharma-megha-samadhi. A qualsiasi stadio inferiore – e ce ne sono molti – si è sempre passibili di “ricaduta”.
In realtà difficilmente uno yogin che abbia raggiunto questo alto livello di consapevolezza e di assenza di bisogni, abbandona totalmente la pratica.
La sua vita è ormai intrisa di pratica e il suo modus vivendi contemplerà probabilmente il reiterare di certe abitudini e di certe pratiche. D’altronde, come pare dicesse il famoso monaco buddista Dōgen, fondatore della scuola Zen, non si deve mai abbandonare la pratica perché
«L’illuminazione è infinita e così la pratica. Illuminazione e pratica sono inestricabilmente connesse» [6].
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- E. F. Schumacher, Small is Beautiful: A Study of Economics As If People Mattered (1973).
- Hatha-yoga-pradipikā, 1.66.
- Narada parivrajaka Upanishad, 3.82-84.
- Mundaka Upanishad, 3.14.
- Avadhuta Upanishad, 15-23.
- Tratto dal film Zen, 2009.
- Frase attribuita a Socrate in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 2.27.