Appena si va un po’ oltre la pratica fisica dello yoga, tra i primi concetti in cui ci si imbatte vi sono yama e niyama. Sono visti come dei precetti, quando in realtà sarebbero da trattare più come dei prerequisiti. Un precetto è una regola che va seguita, una norma decretata da un’autorità e di fatto spesso yama e niyama sono paragonati ai dieci comandamenti della religione cattolica. Yama e niyama invece sono parti fondamentali di un sistema di ricerca interiore. Non sono regole universali, ma è un po’ come dire: se vuoi avere braccia forti, allenati con delle flessioni.
C’è quindi una differenza sostanziale tra i comandamenti cristiani e i suddetti prerequisiti yoghici: mentre i primi nascono evidentemente da un’esigenza sociale, perché la società ha bisogno di regole per una felice convivenza; i secondi nascono da un’esigenza interiore, perché lo yogin ha bisogno di pace mentale per raggiungere il suo scopo.
Fare del male a qualcuno, rubare, mentire, sprecare inutilmente energie sono tutti costrutti che non lasciano la mente libera, perché necessitano di elaborazione mentale, memoria, sostegno nel tempo. È ovvio che evitare di rubare è un bene anche per la comunità, ma non dimentichiamo che gli yogin erano spesso persone che si ritiravano in eremitaggio nelle grotte o nelle foreste. Dal punto di vista dello yoga, chi paga le conseguenze di certi atti è prima di tutto chi li commette per il solo fatto che non avrà una mente sgombra da pensieri.
Partendo sempre da questo punto di vista apparentemente egoistico, anche gli atti di gentilezza sono visti come benefici per la persona che li compie. Per esempio, della pratica della mettā, la meditazione della gentilezza amorevole, si dice:
«Con l’addestramento yogico il cervello entra in maggiore sintonia con il cuore; nello specifico, durante la meditazione della compassione. Negli yogin la compassione affina la percezione delle emozioni delle altre persone, soprattutto quando queste ultime sono turbate, e rafforza la sensibilità rispetto al proprio corpo… I cambiamenti neurali derivanti dalla pratica della metta (presenti in seme già nei principianti) sono in linea con quelli trovati nei cervelli di supersamaritanni pronti a donare un rene. La gentilezza amorevole rafforza inoltre le connessioni tra i circuiti del cervello per la gioia e la felicità e la corteccia prefrontale, una zona critica per quanto riguarda la guida del comportamento. E quanto più cresce la connessione tra queste regioni, tanto più una persona con l’addestramento alla mettā diventa altruista» [1].
Più si è gentili e più si è felici.
Sembrerebbe appunto un modo egoistico di approcciarsi alla compassione e alla gentilezza, ma in fondo si tratta di un atteggiamento positivo e propositivo tipico di tutto lo yoga: la disciplina yoga nasce come ricerca spirituale e nel cammino se ne guadagna in forma fisica, salute, agilità. Molte persone partono dalla ricerca di agilità e poi magari finiscono per farne una ricerca spirituale. Si può partire dalla gentilezza per essere felici o partire dalla felicità per essere gentili, il risultato non cambia. In entrambi i casi l’approccio è diretto e sincero e non nasconde dinamiche inconsce più complesse come si accennava nello scorso articolo.
Questa idea di base è presente non solo in Patanjali, ma in tutta la filosofia yoga e si esprime bene nel concetto di dharma:
«Le dieci virtù che costituiscono la base del dharma sono: soddisfazione interiore, capacità di perdonare, autocontrollo, onestà, purezza, controllo dei sensi, umiltà, conoscenza delle scritture, veridicità e gentilezza» [2].
Spesso dharma è tradotto come “comportamento etico”. Questa espressione si avvicina al concetto, ma non è esaustiva. Altre volte si traduce dharma come legge universale, ma anche qui si rischia di travisare il concetto. Per capirlo forse l’esempio migliore è dato da Shakespeare:
«Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena. Ognuno nella sua vita interpreta molti ruoli e gli atti sono le sette età della vita» [3].
Ogni persona ha il proprio ruolo in questo mondo e il ruolo in genere è dato in base alle proprie caratteristiche, i propri talenti, l’essere in un dato modo, in un dato luogo, in un dato tempo.
Il dharma è questo ruolo e ciò che bisogna fare in virtù di quel ruolo. Solo così, vivendo appieno il proprio dharma, ogni persona può esprimere il proprio pieno potenziale. Solo esprimendo il proprio pieno potenziale si può essere soddisfatti interiormente e appagati dalla propria vita.
Le altre virtù del dharma, oltre la soddisfazione interiore, sono qualità che permettono di vivere serenamente, con la mente sgombra, con un senso di pienezza e pervasi da emozioni positive. Insomma sono le virtù che ci consentono di vivere serenamente e felicemente. Tra queste, come si diceva prima, c’è appunto la gentilezza.
«Troppo spesso sottovalutiamo il potere di un tocco, di un sorriso, di una parola gentile, di un orecchio che ascolta, di un complimento onesto o del più piccolo atto di affetto, che hanno tutti il potenziale per cambiare una vita» [4].
In virtù delle parole citate sopra a proposito della mettā, la gentilezza ha il potenziale di cambiare la vita di chi la riceve, ma anche di chi la effettua.
La gentilezza genera il bene nel mondo e per questo anche nelle preghiere della tradizione vedica si chiede e si spera che il Cielo e la Terra siano innanzitutto gentili con noi, per il bene di tutti.
«Che le erbe e le piante siano dolci per noi! Svaha alla terra. Meditiamo sulla gloria. Che le notti e i giorni siano meravigliosi, e che la polvere della terra sia dolce! Che il cielo, nostro padre, sia gentile con noi! Svaha al cielo. Che guidi il nostro intelletto! Che la pianta soma sia dolce per noi, che il sole sia gentile, che le direzioni ci aiutino! Svaha al cielo» [3].
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La lezione “Il potenziale per cambiare una vita”, in diretto rapporto con questo articolo, è una pratica che ripercorre con il corpo le dieci virtù del dharma per riflettere e sentire quanto e come queste virtù agiscono dentro di sé. Abbonati a Patreon per provarla e vivere con il corpo il contenuto di questo articolo!

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- D. Goleman e R. Davidson, La meditazione come cura, ed. Rizzoli, 2011.
- Narada-parivrajaka Upanishad , 3.24.
- W. Shakespeare, As you like it, 1599-1600 (atto II, scena VII).
- Leo Buscaglia, citato in Words from the Wise: Over 6,000 of the Smartest Things Ever Said (2007) di Rosemarie Jarski.
- Brihadaranyaka Upanishad, 6.3.1
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