ARTICOLO – Essere contenti di sé

ARTICOLO – Essere contenti di sé

Lo yogin dovrebbe abbandonare tutti i desideri eccetto quello della realizzazione. Non avido di successo materiale, dovrebbe essere estremamente ambizioso nel raggiungere il successo spirituale. Non si deve preoccupare troppo dell’attaccamento a questo desiderio di realizzazione, perché esso stesso sarà automaticamente dissolto una volta che la realizzazione sarà raggiunta. Il para-vairagya, il distacco supremo ovvero l’assenza totale di desideri, è un risultato spontaneo della liberazione, moksha. A questo punto niente è più importante, perché si è immersi nel vuoto cosmico, nella beatitudine cosmica, sat-cit-ananda.

Ora, tutto questo è già difficile da comprendere a parole, figuriamoci a metterlo in pratica. Al di là della difficoltà dell’impegno che il cammino spirituale richiede, del tempo necessario, della dedizione e delle rinunce, a esser proprio sinceri con se stessi è arduo anche pensare di intraprendere un cammino spirituale abbandonando ogni altro desiderio se non quello della meta finale.

Molte persone si impegnano nella spiritualità, ma mantengono piccoli o grandi desideri più o meno legittimi.

È difficile non avere desideri, perché è difficile risolvere il karma.

La parola karma indica l’azione condizionata. L’azione viene condizionata dai desideri che si cerca di realizzare, ma non sempre e non necessariamente questi desideri sono consci. A volte agiamo in base a spinte interne, inconsce che neanche ci appartengono veramente (per es. un condizionamento sociale o familiare).

Per riuscire ad agire in maniera incondizionata occorre quindi prima di tutto comprendere le motivazioni interiori che ci spingono in una direzione o nell’altra. Bisogna insomma conoscere se stessi, Bisogna mettere le mani nell’inconscio, cercare di capire e capirsi il più possibile, osservandosi con uno sguardo oggettivo e neutro così da poter mantenere incondizionata almeno l’osservazione.

Man mano che questa conoscenza di sé si approfondisce, ci è più facile avvicinarsi alla nostra vera natura. Il riferimento è ancora alla natura terrena, non spirituale, ovvero alle nostre inclinazioni, a ciò che veramente amiamo e desideriamo al di là di cosa desiderano gli altri per noi o di cosa pensiamo sia giusto essere o fare.

Ognuno nasce con delle caratteristiche e delle tendenze, ognuno sviluppa degli interessi e delle curiosità verso alcuni ambiti della vita. Dare spazio a queste tendenze è la strada per realizzare ciò che nello yoga è detto svadharma, il dharma personale.

Il dharma è la legge cosmica, la legge ineluttabile per cui le cose vanno come vanno: il sole splende e fa crescere le piante, perché questa è la sua natura, la terra gira, perché questa è la sua natura. Così ogni cosa in maniera naturale contribuisce all’armonia del tutto.

Allo stesso modo ognuno di noi ha delle capacità individuali e particolari, che andrebbero sfruttate affinché in maniera naturale, spontanea, senza particolare sforzo, si contribuisca all’armonia del tutto.

Dal momento che ognuno di noi però è condizionato da molti fattori, non è sempre facile sfruttare tali capacità, anzi spesso non è nemmeno facile riconoscerle. Una cosa però è certa: quando si riconoscono e si vive in modo da poterle manifestare, in modo da esprimere sempre di più le potenzialità che si sentono dentro, allora si vive più contenti di sé.

«Santosha significa essere sempre soddisfatti di ciò che si ottiene facilmente» [1].

Il “facilmente” di questo verso della Shandilya-upanishad è da intendersi non come il cercare la via più facile, ma il cercare la via più naturale per sé. Non è detto che la via più naturale sia la meno ardua, a volte occorre un grande sacrificio e un grande sforzo per ottenere ciò che si vuole raggiungere. Quando però l’obbiettivo è nelle proprie corde, lo sforzo non è poi percepito come tale e soprattutto dopo dona grande soddisfazione. Quando invece si persegue una strada comoda, ma che non ci appartiene, magari non si percepisce sforzo, ma molto facilmente insoddisfazione, frustrazione, apatia.

Ecco allora che la capacità di accontentarsi passa, tra le altre cose, da un’esplorazione del proprio dharma. Quando agisco o vivo in armonia col dharma è più facile che io riesca ad accontentarmi di ciò che faccio e di ciò che sono. Una volta che realizzo il mio dharma è più facile per me non coltivare ulteriori desideri e quindi portarmi verso quel para-vairagya, che mi assicurerà ananda, la beatitudine.

«La suprema felicità (deriva) dall’accontentarsi» [2].

Marici-āsana, posizione del saggio Marici, indica la disposizione ad aprirsi, ad accogliere, ascoltare, comprendere. Sicuramente però ci sono cose che sono più disposto/disposta ad accogliere. A quali insegnamenti mi apro più facilmente?

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La  lezione “Santosha”, in diretto rapporto con questo articolo, è una ricerca sulle proprie inclinazioni, sul proprio dharma.

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  1. Shandilya-upanishad , 1.2.
  2. Yoga-sutra 2. 42.