ARTICOLO – Credi responsabilmente!

ARTICOLO – Credi responsabilmente!

Tra i precetti, niyama, degli Yoga-sūtra di Patanjali troviamo Īshavara-pranidhāna, che in genere è tradotto come “abbandono a Dio”. In una disciplina, lo Yoga, dove tutto è sotto controllo, dal corpo alla mente, un tale precetto può suonare un po’ troppo fatalista. Vale allora la pena cercare di capire il vero significato di questo niyama.

Partiamo dalla sua etimologia. Pranidhāna è un vocabolo formato dal prefisso pra, che ingrandisce il significato della parola che accompagna, e dal termine nidhāna, che indica un ricettacolo, un posto dove si trova riposo.

Pranidhāna è dunque un luogo dove si trova immensa quiete. Nello specifico si tratta di un luogo di contemplazione, un luogo astratto e per estensione finisce per indicare una profonda meditazione. Nella meditazione infatti si può trovare profonda quiete.

Quando a pranidhāna si antepone Īshvara, si vuole indicare che questa profonda quiete la si può trovare in Īshvara. Su chi sia Ishvara ho discusso ampiamente nel podcast “Gli Yoga-sutra spiegati passo passo” e rimando per questo agli episodi dedicati, quelli dal 20 al 24 della prima serie.  Per completezza dell’informazione però vediamo anche l’etimologia di questo termine. È composto da ish che tra i vari significati ha anche quello di governare, dirigere, perciò diventa per estensione un “capo”, un “proprietario”, “un governatore”; e vara che significa “il migliore” , “l’eccellente”.

Qualcuno traduce quindi Ishvara con il capo dei migliori, delle cose più belle, ma trovo più corretta la traduzione “il migliore dei capi”, “l’eccellente governatore”.

Io ho parlato di Īshvara come un ideale, ma più genericamente ci si riferisce a Īshvara come a Dio.

Il concetto di Īshavara-pranidhāna è dunque che meditando profondamente su Dio oppure abbandonandosi a Dio (nel contesto del karma-yoga si dice “pensando che sia Dio ad agire”), in sostanza avendo fede e fiducia, si può raggiungere la pace dell’anima.

«Il samādhi si ottiene con l’abbandono a Īshvara.» [1].

In effetti, se il samādhi è uno stato di superamento dei pensieri, delle vritti, uno stato di quiete assoluta, di vuoto della mente, un modo per raggiungerlo può essere quello di scrollarsi di dosso tutti i pensieri, lasciandoli a qualcosa di più grande di sé. Attenzione però: ci sono due tipi di adozione di questo atteggiamento, due diversi modi di arrivarci con le loro relative conseguenze.

Il primo è un’evasione di responsabilità: è l’atteggiamento del credente cieco, di colui che senza riflettere, senza porsi domande, senza mettere in discussione nessuna delle proprie credenze, affida da subito la propria vita e quindi anche le proprie scelte a Dio o a chi lo rappresenta. Si tratta da una parte del fatalismo di cui parlavo sopra e dall’altra di un fede fin troppo incondizionata, che rischia di bloccare la riflessione critica, che a sua volta blocca l’evoluzione interiore e elimina definitivamente l’idea di un libero arbitrio. In un certo senso l’individuo qui è passivo.

C’è poi un approccio più responsabile, che arriva con la maturità e la saggezza. È la comprensione che ogni evento che accade dipende da due fattori fondamentali, che incidono sull’evento stesso in proporzioni variabili: 1. le proprie scelte e le proprie azioni; 2. la casualità, che altro non è se non l’insieme delle scelte di tutti gli altri e l’insieme dei movimenti della natura, insomma tutte le variabili del mondo che non si possono calcolare.

In questo secondo approccio l’individuo è attivo: prende su di sé le proprie responsabilità, fa quello che deve fare, cerca di capire il più possibile di sé e del mondo che lo circonda, salvo poi riconoscere che a un certo punto la sua volontà e la sua conoscenza incontrano un confine invalicabile. Da lì in poi può solo affidarsi a Dio.

«Dopo aver riflettuto sul soggetto che percepisce l’esperienza, sul mondo oggettivo e su Īshvara, si comprende che tutto ciò è Brahman» [2].

Questo è esattamente quello che ci si aspetta dallo yoga: riflettere su di sé fino a capire la distinzione tra il proprio senso dell’Io e il vero Sé, a conoscere la propria vera natura; meditare sul mondo intorno a sé fino a destrutturarlo, a capire la natura intrinseca di ogni cosa; meditare su un principio più alto, che inizialmente si prenderà come un riferimento, un ideale che si confà maggiormente alle proprie credenze e ai propri bisogni e a cui ci si possa affidare quando ci si scontra con ciò che non è in nostro potere controllare, decidere, fare.

Riflettere su questi tre elementi è il modo per arrivare a comprendere infine che Tutto è Uno,  Tutto è Brahman.

Si percepisce prima che la propria vera natura è pari alla natura di tutte le cose, illusoria nella propria materialità, sostanziata dello stesso principio nel profondo. Poi si capisce che Īshvara è un testimone ideale, ma che quello stesso testimone è dentro di sé, che le caratteristiche di quell’ideale sono intrinseche in se stessi.

Nella comprensione che Tutto è Uno sicuramente si trova la quiete più profonda, ma la percezione di questo stato arriva già con Īshvara-pranidhāna, con la consapevolezza che le mie azioni sono intersecate con i movimenti del mondo e che, una volta fatto responsabilmente quello che sento di dover fare, posso mettermi l’animo in pace, trovare un ricettacolo di profonda quiete in Īshvara, augurandomi che le mie azioni siano in armonia con i movimenti del mondo.

 

niyama
Questa versione rilassata, facile, del bastone, sulabhadanda-asana dona un momento di riposo e in un certo senso segna una pacifica resa.

_____________________

La  lezione “Īshvara-pranidhāna”, in diretto rapporto con questo articolo, è una riflessione su come guardiamo al mondo e un modo per imparare ad abbandonarsi.

Abbonati a Patreon per provarla e vivere con il corpo il contenuto di questo articolo!

_____________________

  1. Yoga-sūtra, 2.45.
  2. Naradaparivrajaka-upanishad, 9.12