ARTICOLO – L’esperienza della realizzazione

ARTICOLO – L’esperienza della realizzazione

Lo scopo ultimo dello yoga è la realizzazione della dimensione universale dell’esistenza, la consapevolezza che Tutto è Uno, Tutto è sostanziato della stessa essenza. Questa visione nella scienza si spiega grossolanamente con l’idea che ogni cosa manifesta è fatta di atomi, quindi in ultimissima analisi ogni cosa è uguale.

Nello Yoga la stessa visione si acquisisce tramite un’esperienza mistica e per questo assume una forte connotazione spirituale: questa è la Verità della nostra esistenza. Non è necessariamente una risposta a tutte le nostre domande esistenziali, ma un’esperienza che pacifica l’animo rispetto a quelle domande. È proprio questa pace a renderla degna di elevazione spirituale.

«E’ assurdo parlare dell’esistenza di qualcosa che non sia l’Ātman. La mente non esiste senza Ātman, il mondo non esiste senza Ātman. Quando ci si libera da tutti i sankalpa (desideri, scopi) e si abbandona ogni azione, resta solo il Brahman, e non esiste nulla che non sia Ātman» [1].

Questa esperienza mistica non arriva senza un preciso e profondo allenamento, a meno di rare e fortuite eccezioni.

L’allenamento non è fatto solo di preghiera, meditazione e “cose che si possono fare”. L’allenamento è fatto anche e soprattutto di rinunce in favore di un’unica aspirazione: quella di realizzare quella esperienza. Non è un caso se anche Patanjali nei suoi Yoga-sūtra parla di yama e niyama, i precetti, come maha-vrātam, il grande voto. Si tratta di qualcosa che va portato perennemente dentro di sé, che deve divenire parte del proprio carattere e non una semplice pratica cui dedicarsi in determinati momenti della giornata.

I voti e le rinunce non devono necessariamente essere drastici. “Abbandonare ogni azione” come citato nel verso sopra non vuol dire non agire più in un immobilismo passivo. L’azione è sempre inevitabile, stare immobili porta conseguenze come qualsiasi altra azione. Il punto è piuttosto agire in piena coscienza, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, ma non pensare di essere completamente padroni dell’azione. Le variabili sono troppe perché un’azione vada necessariamente come si vuole. Inoltre è proprio quella volontà ciò che ci fa soffrire e vivere un continuo sentimento di aspettativa. L’azione va scelta, va eseguita, ma non bisogna volerla.

Questa è la vera rinuncia all’azione, questo è l’Īshvara-pranidhāna.

Īshvara-pranidhāna è uno dei primi passi per spogliarsi di quegli attaccamenti all’ego che non permettono di fare l’esperienza cosmica. Finché credo di essere un Io separato dal resto della manifestazione, che può decidere e determinare come andranno le cose, non sarò in grado di sentirmi Uno con la manifestazione, quel Tutto dove le cose accadono per un’infinità di intrecci insondabile e incommensurabile.

Per rinunciare a questa volontà bisogna rinunciare ai desideri e quindi agli scopi ( come è scritto nel verso citato sopra). Non c’è altra via. Come ho già scritto in passato, gli scopi si possono formulare in quanto le scelte, come le azioni, sono inevitabili e lo scopo aiuta a scegliere. Quando però lo scopo è bramato, ecco che si innesca di nuovo il meccanismo spiegato sopra.

«Chi è soddisfatto interiormente ed esteriormente è come un vaso pieno d’acqua immerso nel mare, mentre chi è vuoto interiormente ed esteriormente è come lo spazio contenuto in un vaso vuoto. Non cercare di godere dei sensi, non credere ai sensi. Abbandona ogni proiezione mentale e stabilisciti in ciò che è permanente. Abbandona i concetti di dualità tra chi vede, l’atto del vedere e ciò che viene visto. Abbandona le tendenze della mente, e prendi rifugio solo nell’Ātman, che è l’origine suprema di tutti i fenomeni» [2].

Non avere desideri significa essere contenti con ciò che si ha, ma per poter rinunciare ai desideri bisogna comprendere la natura effimera e illusoria dei sensi.

Non si potrà mai essere soddisfatti finché si cerca la soddisfazione nei sensi, perché questa si esaurisce in fretta per lasciare spazio a una nuova ricerca di soddisfazione.

L’allenamento necessario per quella esperienza mistica parte innanzitutto da un lavoro di conoscenza e consapevolezza. Occorre comprendere i sensi e il loro funzionamento, comprendere il funzionamento delle mente, le sue proiezioni e le sue tendenze, comprendere la dualità che caratterizza tutta la manifestazione e che ci fa pensare di essere diversi da ciò che ci sta intorno.

In ognuno di questi casi comprendere significa abbandonare, ovvero abbandonare una certa visione del mondo, dell’esistenza, di noi stessi per abbracciarne una più ampia, più inclusiva e aulica, una visione cosmica.

«Come i fiumi che scorrono nell’oceano abbandonano il senso di separazione nonché i nomi e le forme che li avevano caratterizzati, così il Jivātman illuminato si libera dai nomi e dalle forme materiali e si unisce al Purusha supremo, che risplende di luce propria» [3].

Tutto è Uno
Sanmukhi-mudrā, sigillo delle sei porte. Se si vuole capire come trascendere i sensi e arrivare all’Ātman occorre ritirare i sensi all’interno di sé.

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La  lezione pratica di hatha-yogaL’abbandono”, in diretto rapporto con questo articolo, è un’analisi del concetto di abbandono in rapporto a Īshvara.

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  1. Tejabindu-upanishad, 5.15–17.
  2. Maitreya-upanishad, 2.28-30.
  3. Mundaka-upanishad, 3.2.8.