Mitāhāra significa letteralmente cibo moderato, limitato. Il termine compare in molti testi di hatha-yoga tra gli yama e i niyama, i precetti e le osservanze, Proprio per la sua natura di precetto, mitāhāra non si limita al rispetto di una certa dieta, ma coinvolge il piano mentale: si tratta non solo di mangiare certe cose o in una certa quantità, ma di non coltivare il desiderio di mangiare tali cose e in tali quantità.
«Mitāhāra significa consumare cibi sattvici ed evitare di riempire completamente lo stomaco. […] Tutte queste pratiche devono essere eseguite sia con le azioni fisiche che con le parole e con i pensieri e gli atteggiamenti mentali» [1].
La dieta non dovrebbe essere vista come una limitazione imposta dall’esterno (dai canoni sociali, da un salutismo cieco, ecc.), ma un atteggiamento di responsabilità e temperanza, ovvero moderazione e saggezza che nascono dall’interno. Lo stesso concetto è ribadito in maniera ben più forte nella Bhagavad-gītā:
«Colui che controlla gli organi dell’azione, ma con la mente si sofferma sugli oggetti dei sensi, certamente s’illude ed è considerato un ipocrita» [2].
Dal punto di vista spirituale non ha senso sottoporsi a delle rigide restrizioni, se poi la mente rimane orientata verso ciò di cui è privata. Ci sono casi in cui la rinuncia, anche quando è scelta liberamente e consapevolmente, è difficile e si risolve ogni volta in una lotta interiore. Nessuna rinuncia però potrà essere facile se viene vissuta come tale. Evitare quella lotta interiore è possibile solo se la rinuncia è optata per lasciar spazio a una nuova acquisizione.
In sostanza è possibile solo se ciò cui ambisco, mettendo in pratica quella rinuncia, è qualcosa per me di gran lunga più importante di ciò cui sto rinunciando.
Se il mio bisogno di sentirmi bene è più forte della mia passione per un cibo che ogni volta mi procura dolori lancianti, eviterò senza particolare rimpianto quell’alimento. Se sono invece disposta/disposto a pagarne il prezzo in termini di salute pur di mangiarlo, allora non rinuncerò. Se il mio piacere nel sentirmi agile è più influente del piacere di una grande abbuffata, ecco che facilmente consumerò pasti moderati. E così via.
«Una persona che segue una dieta moderata (mitāhāra) è colui che evita il cibo cattivo» [3].
Ovvio che il concetto di dieta secondo gli hatha-yogin del medioevo era necessariamente diverso da ciò che considereremmo oggi una buona dieta. Ci sono però dei punti in comune: il cibo in eccesso, il cibo scaduto o avariato, il cibo che appesantisce, il cibo che ottunde la mente, sono tutti da evitare, oggi come allora. Ciononostante, per quanto si possano prendere i principi dello yoga, come principi di buona salute fisica e mentale, essi sono vani se non c’è un vero interesse ad acquisire una salute fisica e mentale.
Si tratta di una questione di priorità.
Mitāhāra prevede una dieta moderata nei fatti e nei pensieri, perché l’alimentazione è considerata in funzione del percorso spirituale. Dunque lo yogin penserà sì a nutrirsi bene, ma non starà certo a pensare al cibo tutto il giorno. Se il percorso spirituale è ciò che più conta e la dieta è parte del percorso, perché effettivamente ha un impatto sul corpo e sulla mente, non sarà un problema abbracciare una dieta moderata senza farsi troppi problemi, senza pensarci troppo e soprattutto senza sentire che si sta rinunciando a qualcosa.
Naturalmente ci possono essere dei momenti di difficoltà, di dubbio, di lotta interiore, di cadute e ricadute, ma questo vale per ogni aspetto del percorso e non solo per l’alimentazione. Negli Yoga-sūtra, Patanjali chiama questi “intoppi” antaraya, gli ostacoli.
È normale che ci siano, basta prenderne atto e proseguire. Allora sì, il praticante sarà completamente immerso nella pratica, anche quando cade, perché anche la caduta insegna qualcosa sul piano della consapevolezza.
«Un praticante devoto di hatha, che è costante nella sua pratica, ha acquisito il controllo sul sonno, il cibo, il respiro e i sensi, costui raggiunge Brahma» [3].
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La lezione pratica di hatha-yoga “Mitahara”, in diretto rapporto con questo articolo, evidenzia il rapporto che abbiamo col cibo.
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- Shāndilya-upanishad, 1.1.
- Bhagavad-gītā, 3.6.
- Hatharatnāvalī, 1.76.
- Hatharatnāvalī, 1.69.