Gli indiani sono da sempre grandi studiosi: a loro si deve l’invenzione della grammatica e in buona parte della matematica. Ancora oggi si annoverano molti indiani tra i migliori informatici e scienziati e medici. La cultura indù però non prevede solo lo studio più o meno astratto dei concetti, del linguaggio e dei fenomeni naturali. Da sempre, in linea con tutta la tradizione orientale, in India si guarda anche al cosiddetto svādhyāya, tradotto in maniera generica come “studio di sé”.
«Svādhyāya è una parola sanscrita composta composta da sva + adhyāya. Adhyāya significa “lezione, conferenza, capitolo; lettura”. Svā significa “proprio, il proprio sé, l’anima umana”. Pertanto, Svādhyāya significa letteralmente “la propria lettura, lezione”. Svādhyāya è anche una parola sanscrita composta composta da svā + dhyāya. Dhyāya significa “meditare su”. La radice di Adhyāya e Dhyāya è “Dhyai” che significa “meditare, contemplare, pensare”. Il termine Svādhyāya, quindi, connota anche “contemplazione, meditazione, riflessione di sé”, o semplicemente “studiare se stessi”.» [1].
Lo “studiare se stessi” è dunque un riflettere a fondo sulla propria natura sia in maniera oggettiva sia in maniera soggettiva, o meglio introspettiva.
Nel primo caso ci si avvale delle lezioni sull’essere umano come portate avanti da medici, psicologi, filosofi, ecc.. Tali letture forniscono osservazioni che si potranno poi comparare con il proprio fisico, il proprio comportamento, le proprie idee. Nel secondo caso ci si avvale della meditazione, che è un semplice rivolgere l’attenzione all’interno, invece che, come si fa di solito, all’esterno di sé. In questo modo si riescono a cogliere degli aspetti di sé attraverso la sensazione e l’intuizione.
Naturalmente questi due piani sono collegati: l’intuizione ha luogo molto più facilmente in presenza di solide basi di conoscenza acquisita, che messe insieme, fatte maturare dentro di sé e lasciate libere di fiorire, aprono a nuove prospettive e piccole o grandi illuminazioni.
Si può fare chiaramente esperienza di questo collegamento in tutta la pratica yoga. Quando la pratica è accompagnata dallo studio dell’anatomia, della fisiologia, della psicologia, della filosofia, è più facile capire cosa ci sta succedendo ai vari livelli della pratica (dagli āsana che muovono i muscoli fino alla meditazione che muove il pensiero del divino). Questo è tanto più valido per noi Occidentali abituati allo studio intellettuale, ma rimane da sempre valido anche per gli indiani, che di fatto hanno istituito vari sistemi di medicina, disegnato una fisiologia mistica, cercato di capire la psiche umana con la logica (si pensi agli Yoga-sūtra di Patanjali).
Per quanto lo yoga stesso nasca come percorso mistico-spirituale, da sempre è stato chiaro agli indiani che non era possibile aspirare a Dio senza prima conoscere se stessi, allo stesso modo in cui non ha senso conoscere la parte spirituale di sé, che si ritiene risieda nella parte più profonda dell’essere, senza prima conoscere l’involucro che la contiene (il corpo).
«Conosci dunque te stesso, non presumere d’investigare Dio; | l’uomo è lo studio più adatto all’umanità» [2].
L’uomo è lo studio più adatto perché invero è l’unica cosa che può arrivare a conoscere. Intendiamoci, l’uomo stesso rimane per l’uomo uno studio infinito, ma avendone esperienza giornaliera e diretta, è di sicuro più vicino alle proprie possibilità di quanto lo sia Dio o l’Infinito.
In tutto questo sfugge un punto fondamentale e cioè il perché, il motivo per il quale si dovrebbe studiare se stessi. Naturalmente se guardiamo dal punto di vista materiale, è presto detto: conoscendo il proprio corpo, la propria psiche, ecc., è più facile creare degli stili di vita, degli accorgimenti, degli strumenti che consentano di vivere meglio e più a lungo.
Questo però è solo in parte lo scopo di svādhyāya, che, va ricordato, è uno studio che ognuno deve portare avanti nei confronti di se stesso. Per capire la differenza basti pensare che per la mia salute potrei tranquillamente affidarmi a un medico che mi dica cosa fare senza fare assolutamente niente di mia iniziativa e senza magari neanche chiedermi il perché né della malattia né delle cure che la contrastano.
Allo stesso modo in campo religioso potrei affidarmi a ciò che il sacerdote mi dice giusto per l’umanità e per Dio, senza tirare in causa alcun senso critico e consapevolezza spirituale.
Svādhyāya non contempla questa “passività”. Svādhyāya è un atteggiamento attivo, che chiama direttamente in causa il soggetto. Quest’ultimo ovviamente non disdegna l’aiuto di chi è più esperto, ma lo accoglie con senso critico e profonda riflessione per farlo, almeno in parte, suo e questo perché svādhyāya è uno studio nel senso letterale del termine.
«La parola studio deriva dal latino studium, der. di studere «aspirare a qualche cosa, applicarsi attivamente» [3].
Lo yogin persegue svādhyāya, perché aspira alla realizzazione, aspira a scoprire la parte più profonda di sé, la parte spirituale, divina. Per arrivare a questo livello deve applicarsi attivamente, per questo, come detto sopra, svādhyāya è qualcosa di attivo. Lo yogin deve certo conservare la fiducia nel divino, nel maestro, negli studiosi e negli esperti, ma per sondare le proprie profondità non può che fare affidamento su se stesso. È questa la più grande lezione di svādhyāya: se aspiri a migliorarti, se aspiri a qualcosa di più alto, allora devi lavorare attivamente su te stesso, nessun altro può fare questo lavoro per te.
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La lezione pratica di hatha-yoga “Lo studio più adatto”, in diretto rapporto con questo articolo, è una pratica di esplorazione di sé dal piano più esterno, superficiale, fino a quello più interno, più profondo.
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- https://en.wikipedia.org/wiki/Sv%C4%81dhy%C4%81ya
- Alexander Pope, Saggio sull’uomo, 2.1.
- https://www.treccani.it/vocabolario/studio/