Lo studio è di supporto in tantissimi, se non in tutti i settori della vita. In fondo per fare qualunque cosa bisogna imparare, se non dai libri, dai maestri o dall’esperienza.
Per questo qualsiasi ricerca si voglia affrontare, sia essa teorica o pratica, materiale o spirituale, è necessario studiare.
«L’inno 1.9.1 della Taittiriya Upanishad sottolinea l’importanza centrale di Svādhyāya nella ricerca della Realtà (Ṛta), Verità (Satya), Autocontrollo (Damah), Perseveranza (Tapas), Tranquillità e Pace interiore (Samas), Rapporti con gli altri, la famiglia, gli ospiti (Praja, Prajana, Manush, Atithi) e tutti i rituali (Agnaya, Agnihotram)» [1].
Ognuno degli elementi sopracitati può essere considerato nel suo aspetto particolare o universale e in tutti i casi basterà un breve ragionamento, una breve ricognizione, per attestare la validità di questa citazione. Lo studio necessariamente influenza e altera i rapporti che noi abbiamo non solo con noi stessi (l’autocontrollo, la tranquillità, la propria verità), ma anche quelli che abbiamo con gli altri (la famiglia, gli ospiti, le persone con cui si condivide la religiosità).
Di fatto lo studio è qualcosa che, volenti o nolenti, si condivide: anche quando non si è intenzionati alla trasmissione delle proprie conoscenze, non si può non farlo.
Lo studio infatti influisce sulla nostra esperienza del mondo e quindi sul nostro modo di reagire agli eventi. Le nostre azioni sono osservate dagli altri e così la nostra esperienza diventa un esempio, che può essere accolto positivamente o negativamente, ma pur sempre un esempio.
«La Taittiriya Upanishad, tuttavia, aggiunge nel verso 1.9.1 che, insieme alla virtù del processo di apprendimento svādhyāyā, si deve insegnare e condividere (pravacana) ciò che si impara. Ciò è espresso dalla frase “svādhyāyapravacane ca”, tradotta come “imparare e insegnare”.» [2].
Dal momento che si trasmette anche senza l’intenzione di farlo, dovremmo essere ben consapevoli di ciò che stiamo trasmettendo.
Svādhyāya, che non a caso nello Yoga di Patanjali è inserito tra le osservanze (niyama), implica nel suo significato non solo uno studio nozionistico, ma anche uno studio rivolto alla comprensione di sé e quindi all’ampliamento della consapevolezza. Essere più consapevoli porta in maniera quasi automatica a sentirsi anche più responsabili per ciò che si trasmette. In questo modo si è portati al dialogo interiore e ad approdare volontariamente a quello svādhyāyapravacane ca, all’idea di insegnare ciò che si impara per sé. Come tutti gli yama e niyama elencati negli Yoga-sūtra, e anche in altri testi, anche svādhyāya è perseguito per un fine personale, per l’evoluzione della propria personalità, ma rivela intrinsecamente e necessariamente un beneficio per la comunità.
Per questo motivo è interessante coltivare lo studio, che è per sua natura infinito, come infinite sono i nostri corpi, le nostre menti e le nostre anime.
Lo studio è alla base della nostra evoluzione e si si vuole continuare a evolversi non si può mai abbandonare lo studio.
«Nel verso 1.11.1, il capitolo finale sull’educazione di uno studente, la Taittiriya Upanishad ricorda: Di’ la verità (satya), segui il dharma, non abbandonare mai lo studio (svādhyāya)» [3].
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La lezione pratica di hatha-yoga “Imparare e insegnare”, in diretto rapporto con questo articolo, è una sequenza dedicata alla crescita personale attraverso lo studio.
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- https://en.wikipedia.org/wiki/Sv%C4%81dhy%C4%81ya.
- Ibidem.
- Ibidem.