Si vede spesso il termine brahmacharya scritto con l’accento lungo sulla seconda a, con l’idea che il termine sia un composto di Brahman e āchariya. Quest’ultimo termine in sanscrito significa insegnante e si scrive con un i prima della y. Brahmacharya è invece un composto di Brahman con charya, che indica il comportamento, in particolare la condotta, il contegno, il giusto comportamento.
Il significato letterale di brahmacharya è “la condotta che porta al Brahman”.
In questo senso il brahmacharya include una moltitudine di sfere di vita, perché di fatto si riferisce proprio a come ci comportiamo nella vita. Tutto ciò che facciamo, il modo in cui lo facciamo, può essere o non essere riferito a questo unico scopo: raggiungere il Brahman.
«Ciò che la gente chiama sacrificio è in realtà brahmacharya (“agire come Brahman”), perché soltanto in questo modo si raggiunge tale livello. Ciò che la gente chiama culto o adorazione è in realtà il brahmacharya, perché soltanto l’adorazione dell’azione nella consapevolezza del Brahman permette di raggiungere l’Ātman. Ciò che la gente chiama compimento del sacrificio è in realtà brahmacharya, perché costituisce la liberazione dalle identificazioni materiali e il distacco dagli attaccamenti. Ciò che la gente chiama meditazione silenziosa è in realtà brahmacharya, perché soltanto attraverso questa consapevolezza si può comprendere l’Ātman e immergersi nell’autentica meditazione.» [1].
È chiaro che dal momento che si ha in mente la ferma determinazione di raggiungere uno scopo, tutte le nostre azioni, tutte le nostre intenzioni saranno indirizzate verso quello scopo.
Così il brahmacharya diventa un grande insieme entro cui cadono tutti gli altri precetti e tutte le pratiche dello yoga: il brahmacharya diventa lo yoga stesso, quanto meno quando si parla di yoga come mezzo (lo yoga si esprime nel doppio significato di mezzo e fine).
Si potrebbe dunque usare la parola brahmacharya come sinonimo di yoga, soprattutto se si pensa che lo yoga si esplica anche in modalità che non sono necessariamente legati alla meditazione o agli esercizi fisici. Si pensi al karma-yoga, al bhakti-yoga o al jnāna-yoga, rispettivamente yoga dell’azione, della devozione e della conoscenza.
Se non è usato direttamente come sinonimo, è solo perché la parola yoga descrive una serie di azioni (in quanto mezzo) e un particolare stato (in quanto fine), mentre il brahmacharya descrive soprattutto un’intenzione. Sembrerebbe contro-intuitivo, poiché se si tratta di una condotta, la condotta è qualcosa di molto concreto, una serie di azioni appunto. Eppure brahmacharya è inserito tra i niyama, le osservanze, che nel rāja-yoga sono considerati māha-vratam, il grande voto. Sono un grande voto, perché riguardano un atteggiamento da mantenere costantemente. Non sono circoscritti all’ora che dedico agli āsana, al respiro o alla meditazione, ma sono l’intenzione di base, sempre presente e costante, grazie alla quale mi ricavo un’ora da dedicare agli āsana, al respiro, alla meditazione. Senza questa intenzione di base, non potrei proseguire nel cammino.
«La condotta del saggio è una nave per attraversare l’oceano del mondo materiale e raggiungere il Brahman trascendentale: bisogna praticare il brahmacharya finché non diventa il naturale stato della consapevolezza» [2].
Come tutte le intenzioni, anche il brahmacharya è soggetto alla volontà. È possibile che io sprechi il mio tempo in azioni che non mi condurranno al Brahman. Dal punto di vista dello yogin, questo, ovvero tutto ciò che è fatto senza questo fine, è un mero dispendio energetico. È da qui che nasce l’identificazione del brahmacharya con la castità.
È vero che con il termine brahmacharya si intende anche la prima fase della vita in cui il giovane si dedica solo allo studio e alla formazione. Questo non coincide necessariamente con un principio di castità: nella seconda fase della vita, il giovane si sposa e cresce una famiglia. Se ci si pensa anche nella nostra cultura si è a lungo sostenuto il valore della verginità prima del matrimonio. La necessità di mantenersi casti può essere ascritta a principi di convenienza sociali, di cui la religione, in ogni cultura, si è fatta carico.
«È riduttivo poter tradurre ed esprimere il concetto di Brahmacharya con la parola “castità” : esso infatti possiede un significato più ampio, meglio descritto dalla parola “continenza”, ossia l’applicazione nella vita di tutti i giorni del senso della misura» [3].
La continenza cui si riferisce il brahmacharya è una misura energetica, è il non sprecare inutilmente le proprie energie.
Questo perché quando si ha in mente un determinato obiettivo, servono tutte le energie possibili per raggiungerlo. Le nostre energie non sono infinite, se sono usate in una direzione, non possono essere usate in un’altra. Spesso poi le sprechiamo inutilmente, rimanendo svuotati, stressati, debilitati e senza niente in mano. Quando si raccolgono tutte le energie in una direzione invece, ne possiamo sentire tutta la forza, per questo Patanjali negli Yoga-sūtra afferma che osservando il brahmacharya si ottiene vigore! [4].
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La lezione pratica di hatha-yoga “Brahmacharya”, in diretto rapporto con questo articolo, è una sequenza dedicata al senso letterale di brahmacharya, che significa “comportamento che conduce al Brahman”.
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- Chandogya-upanishad, 8.5.1-4.
- Nirvana-upanishad, 60.
- https://it.wikipedia.org/wiki/Brahm%C4%81carya.
- Yoga-sūtra, 2.38.