L’origine di ahimsā
É stato il Mahātma Gandhi a far conoscere a tutto il mondo il principio della non-violenza e a dimostrare che non solo la vita spirituale, ma anche quella sociale e politica può essere portata avanti in maniera non-violenta. In realtà le cose sono sempre più complicate di come appaiono e la non-violenza di Gandhi ha avuto effetti e risultati positivi solo fino a un certo punto.
«Ahimsā è un termine sanscrito generalmente tradotto con non-violenza. Composto da a, “non”, e himsā, forma desiderativa del verbo han “uccidere” o “nuocere”, nell’induismo “ahimsā” indica un concetto più esteso dell’assenza di violenza» [1].
Il concetto di ahimsā era già presente nella cultura indiana sia dai tempi vedici. Allora si credeva in una vita ultraterrena e nel favore degli dei, per questo si officiavano sacrifici: al fine di ingraziarsi gli dei stessi e di tamponare eventuali azioni negative. L’ahimsā infatti diventava particolarmente importante in un contesto di legge di contrappasso: se nella vita ultraterrena dovrò pagare per ciò che ho fatto di male adesso, mi conviene non fare del male. In ogni caso posso sempre chiedere perdono attraverso un sacrificio.
Con l’avvento delle nuove dottrine, buddismo, giainismo, yoga, che prendevano spunto dagli shrāmana, asceti indipendenti rispetto al brahmanesino, si fa strada anche il concetto di karman. Le grazie degli dei non contano più allo stesso modo, ciò che conta è l’azione neutra, l’estinzione del karman, l’uscita dal ciclo delle rinascite, la meditazione.
Rinunciando all’azione, i nuovi asceti abbandonano i sacrifici, perché non hanno niente “da chiedere agli dei”. Ciò comporta per questi stessi asceti rinunciare totalmente alla carne, che veniva mangiata solo nei sacrifici. Dal momento poi che la morte e il sangue sono considerati qualcosa di impuro, non potevano certo uccidere per cibarsi di carne. Cibarsi di qualcosa di impuro avrebbe necessitato di un rito purificatorio, ma dato che non praticavano i riti, l’unico modo per rimanere “puri” era evitare in tutti i modi di uccidere o danneggiare qualsiasi essere vivente. In questo senso il valore di ahimsā non si discosta troppo da quello di shaucha.
Il non plus ultra di questa dottrina lo si trova nel gianismo. I giainisti sono in assoluto i seguaci più integerrimi del principio della non-violenza, tanto che si vedono girare con una mascherina sul viso per non dover inconsapevolmente ingoiare un moscerino.
Naturalmente la dottrina si è evoluta e con il tempo ha assunto connotazioni più etiche e morali, rivolte alla compassione più che all’idea di impurità.
«Originalmente visto come “assenza del desiderio di uccidere”, ferire o danneggiare in alcun modo qualunque essere vivente, l’accezione moderna più comune è quella di una serie di valori positivi, quali compassione, amicizia, gentilezza, che uniformano e ispirano la convivenza civile» [2].
Oggi la purezza di ahimsā si esplica nell’idea di empatia, valore che a sua volta presuppone un grande lavoro sulle proprie emozioni e sul proprio karma.
«Il vero sannyasin è sempre libero da qualsiasi malizia e cattivo sentimento, e non commette mai violenza verso alcun essere vivente – né con azioni, né con parole né con pensieri» [3].
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La lezione pratica di hatha-yoga “Ahimsa”, in diretto rapporto con questo articolo, ripercorre il senso di ahimsā dalla sua origine.
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