La decrescita felice
Succede in maniera naturale per esempio nel caso di ciò che i figli hanno grazie al sacrificio dei genitori. In casi come questi l’amore compensa la rinuncia o la fatica, purché questa dinamica abbia comunque una fine con la maturità dei figli e la loro indipendenza. Quando ciò non avviene, a meno che ci siano fattori condizionanti di salute o di circostanza, si parla in genere di rapporto egoistico o profittatore.
Quell’approfittare, quel non rendersi conto che si sta gravando su qualcun altro o, peggio ancora, l’approfittarsene consapevolmente, sono l’esatto opposto di aparigraha.
Di nuovo per definire questo concetto dobbiamo partire dal suo contrario, ma d’altronde non ci sarebbe bisogno del precetto se la condizione non si verificasse.
«Il precetto dell’aparigraha è un autocontrollo (temperanza) dal tipo di avidità e avarizia in cui il proprio guadagno materiale o la propria felicità derivano dal ferire, uccidere o distruggere altri esseri umani, forme di vita o la natura» [1].
Ci sono certo persone che feriscono consapevolmente per ottenere un profitto e può anche accadere che queste persone perseguano alti ideali e principi. Più comune è la condizione di chi, in buona fede, cerca di migliorarsi, di elevarsi come individuo e che allo stesso tempo non si rende conto di quanto e come grava sugli altri. Succede a tutti noi continuamente, si pensi solo a quanto graviamo sul pianeta (e quindi su altri esseri viventi) ogni volta che acquistiamo una bottiglia di plastica, un vestito della cosiddetta fast fashion, ogni volta che prendiamo l’auto o l’aereo.
Alcune scelte non possono essere evitate e una coerenza totale ai principi etici è oggettivamente impraticabile. Ciò non toglie che si possa sviluppare una consapevolezza per ridurre al minimo il proprio impatto sul mondo e imparare a distinguere tra scelte obbligate e scelte superflue.
La direzione è nell’imparare a vivere con meno nell’ottica di quella che è chiamata da anni “decrescita felice”.
Ridurre al minimo l’avere, evitare di prendere ciò che non serve, lascia più tranquilli sul peso che mettiamo sugli altri e lascia più liberi dai condizionamenti. È questa libertà che viene sottolineata dal precetto yama di aparigraha.
«Nella scuola Yoga dell’Induismo, questo concetto di virtù è stato anche tradotto come “astenersi dall’accettare doni”,”non aspettarsi, chiedere o accettare doni inappropriati da nessuna persona” e “non richiedere doni che non devono essere accettati”» [2].
Qualsiasi dono, qualsiasi sacrificio altrui per il nostro bene ci rimane addosso come condizionamento. Senza voler pensare al clima o a temi sociali, si pensi proprio all’esempio dei genitori: ognuno di noi per quanto indipendente e autonomo, rimane psicologicamente legato ai genitori, perché in qualche modo si avverte il debito profondo nei loro confronti. Non a caso il rapporto con i genitori è il tema principale di ogni percorso psicoanalitico o psicoterapico.
Se il debito di riconoscenza verso i genitori può anche essere sano, accumulare debiti con tante persone può diventare altamente condizionante, figuriamoci poi ricevere o prendere qualcosa che ha richiesto un sacrificio altrui non consenziente. I genitori si sono sacrificati per amore, altri possono essersi sacrificato per denaro o involontariamente per conseguenza.
Lo yogin in generale vuole tenere la mente sgombra, mira ad avere meno pensieri possibili e perciò, tra le altre cose, deve anche avere meno debiti possibili, siano essi materiali o psicologici.
Per questo motivo impara a fare a meno, si accontenta di ciò che ha, lavora sul minimo necessario. Non potrà evitare di avere qualcosa o ricevere qualcosa (molti yogin vivono di elemosina), ma eviterà il superfluo. Anche perché il superfluo diventa altro cui badare. Famosa è la storia dell’asceta che aveva un solo vestito e che ne riceve un altro in dono da un ricco signore di passaggio. L’asceta può stare così più pulito, perché ha un cambio e può lavare l’altro vestito. In verità da quel momento la meditazione dell’asceta non è più tranquilla, perché quando, chiuso nella grotta, è in meditazione, il suono della pioggia lo distrae, pensando che il suo vestito è teso fuori ad asciugare e che dovrebbe alzarsi e toglierlo.
Questa storia è estrema nel suo essere esemplare, eppure la nostra vita è costellata di piccole cose cui badare e che non ci permettono di alleggerire la mente. Ridurre al minimo significa anche capire cosa è veramente importante.
Quando ci si accorge che basta il minimo per vivere in pace e che anzi è proprio il minimo a portare la pace, cambia la prospettiva che si ha sulla vita stessa.
«Quando la non-possessività viene rinsaldata, sorge la conoscenza del “come” e del “perché” dell’esistenza» [3].

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La lezione pratica di hatha-yoga “Un autocontrollo”, in diretto rapporto con questo articolo, presenta una sequenza dedicata al senso vero e proprio di aparigraha.
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- https://en.wikipedia.org/wiki/Non-possession
- Ibidem.
- Yoga-sūtra, 2.39.