ARTICOLO – Il coraggio, quello vero

ARTICOLO – Il coraggio, quello vero

Nello scorso articolo ho usato indifferentemente i termini coraggio, audacia e temerarietà distinguendo solo tra un uso consapevole o inconsapevole di tali qualità. In effetti queste parole vengono usate spesso come sinonimi e gli stessi dizionari non chiariscono esattamente la differenza.

Il dizionario Treccani ad esempio presenta i tre nomi in questo ordine di gradualità: il coraggio è la «forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio»; l’audacia «la qualità di chi ha molto coraggio e lo dimostra, esponendosi in imprese difficili o pericolose. Rispetto al più comune sinonimo coraggio, l’audacia ha, per così dire, una marcia in più, cioè indica ancora più coraggio»; la temerarietà è una «audacia avventata o sfrontata».

Se prendiamo però l’Oxford Languages (il dizionario di Google) troviamo un altro ordine: il coraggio è «la forza d’animo connaturata, o confortata dall’altrui esempio, che permette di affrontare, dominare, subire situazioni scabrose, difficili, avvilenti, e anche la morte, senza rinunciare alla dimostrazione dei più nobili attributi della natura umana»; l’audacia è definita come «comportamento o disposizione istintiva in cui al coraggio si unisce la noncuranza o lo sprezzo del pericolo o del rischio»; la temerarietà come «ardire incosciente, talvolta anche sfrontato, nell’esporsi a un pericolo o nello sfidare chi è notoriamente più forte».

In entrambi i casi si noterà come il “semplice” coraggio sia associato a qualcosa di più consapevole, forse moderato rispetto agli altri due, ma pienamente cosciente. Affrontare gli ostacoli e i pericoli con incoscienza rientra nell’idea di audacia e temerarietà, ma non certo di coraggio. Il coraggioso ha piena coscienza della situazione che gli si para davanti e che deve affrontare.

«Sicuramente i più coraggiosi sono coloro che hanno la visione più chiara di ciò che li aspetta, così della gloria come del pericolo, e tuttavia l’affrontano» [1].

Quella “visione chiara” è una parola chiave per lo yogin. Tutto il lavoro dello yoga è orientato verso l’acquisizione di una visione chiara: di sé, del proprio corpo, delle proprie energie, delle proprie fluttuazioni mentali, della propria vera natura fino alla visione chiara del mondo intero e dell’universo. Non si può pensare un realizzato senza una tale chiarezza, non a caso si parla di illuminazione: il gettare luce su ogni cosa, su di sé e sul Tutto.

Seguendo la logica del sillogismo, l’illuminato allora deve per forza essere anche un coraggioso e tendenzialmente lo è. Egli accetta e affronta ogni situazione con serenità d’animo, perché sostanzialmente non ha niente da perdere. Non ha niente da perdere non solo perché ha coltivato il distacco dai desideri, ma perché sa, ha sperimentato la propria essenza immortale. Lo yogin non ha paura di morire, perché sa che la morte è solo un’altra forma della stessa essenza.

«Già, ma scattare è muoversi; rimanere ben saldi sulle gambe, quello è coraggio» [2].

Dunque lo yogin di fronte al pericolo non cede all’agitazione, ma rimane ben saldo. È ciò che racconta la vecchia storia zen:

«In Giappone durante le guerre feudali, un esercito invasore, si impadronì fulmineamente di una città e ne prese il controllo. Tutti gli abitanti di un villaggio vicino fuggirono prima dell’arrivo dell’esercito nemico. Tutti, eccetto il maestro zen. Incuriosito da questo vecchio, il generale vincitore si recò al tempio per vedere con i suoi occhi che razza d’uomo fosse questo maestro. Non sentendosi trattato con la deferenza e la sottomissione cui era abituato, il generale andò su tutte le furie. – Pazzo! – gli gridò sguainando la spada – Ti rendi conto di essere di fronte ad un uomo che può trafiggerti da parte a parte senza batter ciglio – ma invece di spaventarsi, il maestro restò impassibile: – e tu ti rendi conto – rispose con calma – di essere di fronte a un uomo che può lasciarsi trafiggere da parte a parte senza batter ciglio?»

Naturalmente l’esempio della storia è un esempio estremizzato, ma è esemplare di ciò che lo yogin può raggiungere. In questo caso non si tratta di incoscienza: il maestro ha ponderato ogni eventualità, è disposto a morire (nel racconto si dice che è già vecchio) ed evidentemente questa possibilità è più auspicabile per lui dell’idea di evacuare dal tempio, e soprattutto il suo atteggiamento non mette in pericolo altre persone o altri esseri viventi. Per questo rimane saldo nella sua posizione affrontando ciò che deve affrontare con la calma con cui affronta qualsiasi evento.

«I temerari fanno ogni cosa senza riflessione; ma i coraggiosi riflettono sui pericoli al loro sopraggiungere e li affrontano intrepidamente» [3].

Capire e coltivare questa fermezza è il senso di sāhasa per lo yogin. Sāhasa è un coraggio di riflessione e ponderazione per il praticante, un coraggio di illuminazione per il realizzato.

 

audacia
Ardhabhujanga-āsana, posizione parziale del cobra, dà l’idea di un cavaliere che presta un giuramento prima di apprestarsi a combattere. C’è espressa tutta la consapevolezza del rischio che si andrà ad affrontare.

 

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La  lezione pratica di hatha-yogaLa visione più chiara”, in diretto rapporto con questo articolo, è dedicata al coraggio come fermezza interiore.

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  1. Tucidide, La guerra del Peloponneso.
  2. William Shakespeare, Romeo e Giulietta.
  3. Iperide, Frammenti.