ARTICOLO – Sentimento e azione

ARTICOLO – Sentimento e azione

Dayā e dāna sono due concetti che vanno spesso a braccetto nella letteratura yoghica e in quella buddista, tanto che è facile confonderli o pensarli come sinonimi.  In realtà si tratta di due aspetti ben distinti di un medesimo atteggiamento: il primo riguarda un’emozione, il secondo riguarda un’azione. Da questo punto di vista potremmo collocarli quindi tra gli yama il primo, e tra i niyama il secondo. L’azione rafforza e stabilizza il sentimento, che a sua volta è imprescindibile per l’azione.

Il contesto in cui si collocano riguarda il nostro rapporto con gli altri.

«Dayā è una parola sanscrita comunemente tradotta come “simpatia” o “compassione”. Deriva dalla radice “da”, che significa “dono” ed è un concetto nell’induismo e nel sikhismo in cui si prova simpatia per la sofferenza degli altri» [1]

Anche dāna deriva dalla stessa radice.

«Dāna significa dare, spesso nel contesto di donazione e carità. In altri contesti, come i rituali, può semplicemente riferirsi all’atto di dare qualcosa» [2].

I due termini si trovano anche come composto con significato univoco: dayādana indica l’atto di dare benedizioni o riconoscere dei premi o dei doni; dānadayā è colui che dona (il donatore). Questo donatore è qualcuno che dona senza secondi fini, lo fa col cuore, con la compassione tipica di chi veramente “con-patisce”. Infatti, a voler dire il vero, non è detto che il sentimento di generosità sia imprescindibile dall’azione: si potrebbe voler donare e donare per apparire giusti e bravi o per avere un ritorno in termini di credito personale, si potrebbe voler donare persino per umiliare chi riceve. Chiaro che queste forme del donare non rientrano in dāna, che è invece, questo sì, un’azione imprenscindibile da dayā. 

Il donare di dāna è sincero, come lo è il sentimento di dayā.

Si potrà allora pensare che essi vengano inseriti tra yama e niyama (nella Hathayoga-pradīpikā) per insegnare a essere generosi. E così è di fatto. Ho però ricordato più volte che gli yama sono delle forme non solo di autocontrollo, ma anche di autoanalisi. Nel contesto della generosità e della compassione è facile che il nostro più profondo stato d’animo sfugga alla nostra consapevolezza. Anche quando si simpatizza con qualcuno con la più sincera delle intenzioni, infatti, c’è spesso una parte di sé che ne approfitta per trovare una via di auto-compiacimento.

Nella parte più recondita (ma a volte neanche poi così recondita) della nostra psiche, si nasconde il giudizio e con esso la critica: se quella persona soffre, forse non è stata abbastanza attenta, abbastanza intelligente, abbastanza saggia. Sicuramente noi siamo più attenti, più intelligenti, più saggi, perché non soffriamo allo stesso modo. Non è un caso se nella maggior parte degli esseri umani la vera “simpatia” (sym-pathos, patire insieme) scatta solo nel momento in cui si prova una stessa esperienza negativa: “ora che ho sofferto di mal di schiena, capisco perché tutti quelli che ne soffrono si lamentano così tanto”, “ora che mi è successa questa sfortuna tra capo e collo, non giudicherò mai più chi mi dice che gli è capitata una sfortuna dal cielo” e così via… giusto per fare qualche banale esempio.

«La tolleranza è piena di un senso di superiorità; essa deve essere sostituita per una comprensione totale» [3].

Il giudizio è una sorta di difesa, che ci serve da una parte per scacciare la malasorte o la sofferenza da noi stessi, dall’altra per sentirci esseri migliori. Quando però una persona è stabile nella propria interiorità, serena senza bisogno di appigli esterni, distaccata dai desideri che governano le proprie emozioni e le proprie azioni, allora non sente alcuna necessità di consolidare la propria autostima a spese altrui.

Dayā ci richiede un’analisi di coscienza: sto davvero soffrendo per/insieme a questa persona? O in qualche modo mi sento superiore?  È un allenamento, che ci porta verso un’interiorità sempre più libera, libera dal giudizio e dal bisogno di affermazione, un’interiorità serena e pacifica di per sé, che è capace di sintonizzarsi nel profondo con gli altri. Solo allora le nostre azioni di generosità si potranno annoverare nel merito di dāna. Con dayā e dāna ci si avvicina alla realizzazione di sé e nel frattempo si aiutano anche gli altri. È un win-win, un guadagno per tutti!

 

Dana e daya
Svastika-āsana, posizione della svastica. La svastica originale indù è inversa rispetto a quella più tristemente nota. Da simbolo di vita, estremamente positivo, la svastica è divenuta il simbolo d’intolleranza per eccellenza.

_____________________

La  lezione pratica di hatha-yogaDaya”, in diretto rapporto con questo articolo, è dedicata al concetto di dayā.

Abbonati a Patreon per provarla e vivere con il corpo il contenuto di questo articolo!

_____________________

  1. https://en.wikipedia.org/wiki/Daya_(virtue)
  2. https://en.wikipedia.org/wiki/D%C4%81na
  3. Satprem, L’agenda di Mère, Edizioni Mediterranee.