ARTICOLO – Il rispetto di sé

ARTICOLO – Il rispetto di sé

Anni fa il Dalai Lama suggerì una modifica alla famosa meditazione buddista, detta mettā, la cosiddetta meditazione della gentilezza amorevole. Questa consiste nell’inviare interiormente auguri di salute e serenità prima a chi si ama, poi a persone neutre, dopo a nemici e infine a tutto il mondo. Il Dalai Lama però si accorse che le persone, specie in Occidente, faticano a essere gentili con se stessi prima ancora che con gli altri. Perciò suggerì di inserire anche se stessi nella lista, come primi della lista e dopo continuare con gli altri.

Chi odia se stesso o non rispetta se stesso difficilmente riesce ad amare e rispettare pienamente gli altri. Questo “pienamente” è inteso come un amore che viene dal profondo del cuore, che nasce dalla sincera compassione e soprattutto non si aspetta niente in cambio.

«La carità fatta perché si sente che si deve, senza aspettarsi niente in cambio, nelle giuste condizioni di tempo e di luogo e alla persona che ne è degna, si dice che ap­partenga alla virtù (sattva). La carità compiuta con la speranza di una ricompensa o con il desiderio di un risultato interessato, o fatta a malincuore, appartiene alla passione. (rajas) Infine, la carità fatta in tempi e luoghi inopportuni e a persone che non ne sono degne, o compiuta in modo irrispettoso e sprezzante, appartiene ali’ ignoranza (tamas)» [1].

I ritorni non devono essere necessariamente economici negli atti di carità. Ci sono molte persone, insicure di sé, convinte di non essere degne dell’amore altrui, che si danno un sacco da fare per apparire (ai propri occhi e a quelli altrui) buone e caritatevoli, pronte a sacrificarsi per gli altri. Spesso e volentieri questo atteggiamento nasconde nel profondo un bisogno di riconoscimento, un bisogno di apprezzamento, la necessità di sentirsi utili, amati, lodati.

La carità “sattvica” dovrebbe essere scevra da questi bisogni interni. Dovrebbe essere mossa da un puro senso di necessità del momento, dalla simpatia (sym-pathos) che viene dalla comprensione della situazione altrui e della sofferenza altrui. Tale carità coincide con l’abbandono del proprio egocentrismo, con una resa totale dell’ego.

«Dāna è definito nei testi tradizionali come qualsiasi azione di rinuncia alla proprietà di ciò che si considera o si identifica come proprio, e di investimento dello stesso in un destinatario senza aspettarsi nulla in cambio» [2].

Sul piano materiale la carità significa rinunciare a qualcosa di proprio per donarlo ad altri. La stessa cosa avviene sul piano dell’interiorità: si rinuncia al proprio merito, al proprio tornaconto, ai bisogni e desideri più profondi per mettere in primo piano i bisogni, i desideri e i meriti altrui. Tale operazione è alquanto difficile se non riusciamo a eseguirla nemmeno per le varie parti di noi.  Accade, per esempio, che ci prendiamo cura del nostro corpo non per rispetto del corpo, per la comprensione che è il veicolo che ci permette di fare esperienza nella vita, ma per i riconoscimenti sociali che un bel corpo può ricevere. Vogliamo essere performanti, esteticamente attraenti, sani ed efficienti perché questo soddisfa i criteri di successo nella società.

Di per sé non c’è niente di sbagliato in questo, senonché spesso non ci permette di goderci le nostre attività e quindi i singoli momenti: fare un esercizio con fatica con il solo pensiero del dimagrimento che ne otterrò, è ben diverso dall’eseguire un esercizio e ascoltare il corpo mentre lo esegue, stupirsi per la propria capacità muscolare, avvertire l’ossigenazione e di conseguenza la vitalità che si instilla nell’organismo, giusto per fare un esempio.

Lavorare col corpo con il solo scopo dell’obiettivo o, al contrario, lavorare col corpo svogliatamente, aumenta il rischio di farsi del male, di superare i limiti del corpo, di estenuarlo o esaurirne le energie.

Ecco dunque che dāna può insegnarci qualcosa anche riguardo alla nostra pratica fisica, può insegnarci il rispetto per il corpo. Praticare yoga presuppone concentrazione, attenzione, ma soprattutto cura. Nel momento in cui si lavora con premura, ascoltando i segnali del corpo, rispettandolo, la pratica diventa un arricchimento anche per la psiche, per la conoscenza di sé, per la propria autostima e sicurezza di sé. Partendo dal rispetto di sé durante la pratica fisica, si può imparare ad amare più sinceramente anche gli altri.

Troppo spesso siamo nemici del nostro corpo e di noi stessi, troppo spesso conosciamo poco del nostro corpo e di noi stessi, troppo spesso indugiamo in atteggiamenti che ci sono dannosi invece che benefici. Dāna è uno degli yama e niyama e in quanto tale ci può aiutare a invertire la rotta.

«Le creature viventi sono influenzate da dāna. I nemici abbandonano l’ostilità attraverso dāna. Uno sconosciuto può diventare una persona amata grazie a dāna. I vizi vengono uccisi tramite dāna» [3].

 

amare se stessi
Viparītakaranī-mudrā, gesto dell’azione invertita. Quando si riesce a rilassare, si godo del piacere di sentire il sangue defluire dalle gambe, che diventano più leggere.

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La  lezione pratica di hatha-yogaGli atteggiamenti della carità”, in diretto rapporto con questo articolo, è dedicata alla forme di dāna verso se stessi ancor prima che verso gli altri, secondo i guna.

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  1. Bhagavad-gītā, 17.20-22.
  2. https://en.wikipedia.org/wiki/D%C4%81na
  3. Proverbio indiano (https://en.wikipedia.org/wiki/D%C4%81na#cite_note-kandm3-13).