ARTICOLO – Sforzi inutili e dannosi

ARTICOLO – Sforzi inutili e dannosi

Prayāsa è tradotto come sforzo, fatica, difficoltà. Ha spesso una connotazione negativa, nel senso di sforzi che sono eccessivi, troppo violenti, che causano dolore. Spesso è associato al desiderio di oggetti materiali e quindi indica lo sforzo che si compie pur di ottenere quello che si desidera (con l’idea implicita che il gioco non vale la candela). Nella Hathayoga-pradīpikā è considerato un ostacolo al cammino yoghico:

«Sei cose rendono vano lo Yoga: cibo eccessivo (atyāhāra), sforzi troppo violenti (prayāsa), chiacchiere oziose (prajalpa), rigida osservanza degli obblighi religiosi (niyamāgraha), relazioni con la gente (janasanga) e volubilità (laulya)» [1].

Prima di tutto occorre chiarire un’apparente incongruenza: hatha-yoga è letteralmente lo yoga dello sforzo, lo yoga della violenza. Eppure non solo oggi è praticato con l’idea che non bisogna mai forzare, ma già alle sue origini, come si evince dalla citazione sopra, gli sforzi violenti erano considerati dannosi per la pratica, un ostacolo nel cammino di realizzazione.

Come già spiegato nel mio podcast sui testi dello hatha-yoga, bisogna ammettere che del fanatismo c’era: gli yogin si tagliavano il frenulo linguale per praticare la khecharī-mudrā, si sottoponevano a una rigida dieta, seguivano e seguono tutt’oggi alcuni rituali estremi, come in alcune sette, per esempio, in cui ci si congiunge fisicamente con i cadaveri o si agganciano pesi al pene per fargli perdere la sensibilità; per non parlare di certe pratiche ascetiche come il rimanere con uno o due braccia alzati per anni e anni.

Questi sono alcuni degli esempi più estremi, non tutti gli hatha-yogin erano e sono così. In molti casi c’è una grande consapevolezza dei pericoli di sottoporsi a una disciplina troppo rigida e di fatto nei testi si dà il monito, per esempio, di considerare con estrema serietà e attenzione il prānāyāma, perché se mal eseguito può essere dannoso, oppure si evidenziano ostacoli come lo sforzo eccessivo (prayāsa) o l’osservare troppo rigidamente gli obblighi e i precetti religiosi (niyamāgraha).

Il cammino yoga però è un lavoro lungo e complesso, che necessariamente implica una certa disciplina se si vuole pensare di ottenere anche solo una parte di ciò che promette.

«Prayāsa significa lavorare molto duramente per ottenere qualcosa» [2].

La questione dunque si pone nel cercare di capire come distinguere tra uno sforzo “giusto” e uno “sbagliato”, tra una “giusta” disciplina e una “sbagliata”. Si potrebbe rispondere con il buon senso e in effetti il buon senso è necessario, ma forse non sufficiente. Il buon senso affinché sia tale deve basarsi su una visione oggettiva di sé, una visione distaccata, una mente che non sia preda delle emozioni o delle pulsioni inconsce.

«Prayāsa significa che dobbiamo acquisire qualcosa, ma se richiede un lavoro troppo pesante, uno sforzo, allora dovremmo evitarlo» [3].

La valutazione di cosa è “troppo pesante” è per forza soggettiva, da calcolarsi sul singolo individuo. Chiaro che se vince la pigrizia, lo sforzo di fare ginnastica sarà percepito come troppo pesante, ma in questo caso si dovrà lavorare sulla volontà e applicare un allenamento graduale, che dia giù dall’inizio abbastanza soddisfazione da poter continuare.

Lo sforzo deve essere prima di tutto quello di volersi guardare dentro e di voler andare nella direzione opposta rispetto all’indolenza.

È molto più facile passare del tempo a scrollare le immagini sul telefono, mentre serve un atto di volontà per decidere di riporre il telefono e mettersi a praticare. Questo può essere considerato uno sforzo e può essere positivo, perché non arreca alcun tipo di danno, anzi. Poi però il beneficio della pratica deve derivare da un esercizio piacevole, che non porti a esasperare il corpo e la mente.

C’è del piacere nel sentire allungare la muscolatura, persino quando all’inizio è leggermente dolorante per quanto contratta, e questo piacere si trasmette al sistema nervoso. Se però l’allungamento è eccessivo, se si tiene con lo sforzo, perché si ritiene che sia giusto così, che bisogna per forza allungare, la mente non si placa e la muscolatura rischia di subire danni o contrazioni maggiori.

Allo stesso modo c’è uno sforzo nel sedersi immobili e cercare di mantenere la mente concentrata, riprendendola ogni volta che si distrae, ma nel complesso si deve percepire infine che la mente si è rigenerata, che il silenzio e l’immobilità hanno aiutato a trovare pace fisica e mentale. Forzarsi a sedersi in un momento dove si vorrebbe e magari si dovrebbe, per esempio, sfogarsi facendo una corsa, molto probabilmente è un esercizio vano, come dice la Pradīpikā.

Lo Yoga si persegue con lo sforzo, ma non si raggiunge con lo sforzo.

Per capire questa differenza occorre fare un lavoro su di sé che è poi il lavoro dello Yoga stesso. Continuare a osservarsi, cercare di capirsi e accettarsi per come si è l’unico vero sforzo da fare ed è l’unico che possa portare a vivere meglio, a divenire persone migliori.

Lo Yoga porta a conoscere se stessi, ma per raggiungere lo Yoga occorre conoscere se stessi.

I paradossi di queste affermazioni (sullo sforzo e sulla conoscenza di sé) sono in realtà la manifestazione di una circolarità: basta entrare nel cerchio perché il circolo virtuoso si metta in moto. Per il resto, si tratta di un circolo infinito, che non avrà mai veramente fine, ma che si muove in spirali di sempre maggiore consapevolezza e sempre maggiore benessere fino a galleggiare in una dharma-megha, una nuvola di virtù, come vuole il nome del più alto livello di samādhi.

Yoga controindicazioni
Khecharī-mudrā, gesto del movimento dello spazio. Nei testi si suggeriva di tagliare il frenulo linguale per potere ottenere una perfetta khecharī che si diceva blocca la dispersione dell’amrita, il nettare vitale. In fondo hatha significa proprio sforzo o violenza, ma occorre ricordare che molte sette di hatha-yoga erano alquanto fanatiche. Il blocco della lingua ha senso per fermare il sistema nervoso e ottenere al contempo un jālandhara-bandha. Non ha senso tagliare il frenulo, non ha senso fare violenza su di sé, il nettare di immortalità non esiste se non nella coscienza profonda, il corpo è comunque destinato a perire. L’unico modo per farlo vivere più a lungo è farlo vivere bene.

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La lezione pratica di hatha-yoga “Prayāsa”, in diretto rapporto con questo articolo, è dedicata al nostro rapporto con lo sforzo.

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  1. Hathayoga-pradīpikā, 1.15.
  2. https://vaniquotes.org/wiki/Prayasa_means
  3. Ibidem.