Lo hatha-yoga è lo yoga dello sforzo. Questo può generare una certa “dissonanza cognitiva” se si pensa che il principio cardine degli āsana è il “rilassamento dello sforzo” [1] e che le posture devono essere “stabili e comode” [2]. Nel loro contrasto queste definizioni rivelano lo stretto connubio che da sempre lega lo hatha-yoga al rāja-yoga.
«Il rāja-yoga non è coronato da successo senza lo hatha, né lo hatha senza il rāja, perciò li si pratichi entrambi fino alla realizzazione finale» [3].
Il testo antico di hatha-yoga più conosciuto, la Hathayoga-prādipīka, si apre con l’affermazione, che si ritroverà anche altrove, che lo hatha-yoga è come una scalinata per colui che vuole raggiungere le vette del “più eccelso rāja-yoga” [4]. Lo yoga regale (rāja) è lo yoga come insegnato dall’omonima scuola di Patanjali, lo Yoga-darshana. Manifesto di tale scuola sono gli Yoga-sūtra dove si trovano le famose definizioni di āsana citate sopra. Dunque si capisce come, per quanto appartenenti a due periodi storici diversi, i due testi, Hathayoga-prādipīka e Yoga-sūtra sono necessariamente correlati.
Il contrasto iniziale si risolve quindi nell’orientare quello sforzo in un’altra direzione. Quello “hatha” indica in realtà l’ostinazione, la pervicacia, sforzo e violenza sì, ma nel senso di dedicarsi letteralmente anima e corpo a una disciplina, senza sconti, senza dilazioni, senza rallentamenti. Questo sforzo però deve avere una direzione, e in particolare una direzione spirituale.
Seguire la disciplina e sforzarsi senza avere in mente lo scopo ultimo e profondo dello Yoga è inutile e vano.
«Ci sono quelli che praticano solamente lo hatha-yoga, senza la conoscenza del rāja-yoga. Io considero costoro dei praticanti che non ottengono risultati dal loro sforzo» [5].
Dire che lo hatha-yoga è una derivazione del rāja-yoga non sarebbe corretto, perché esso sviluppa un sistema nuovo, complesso e autonomo; d’altro canto non si può neanche affermare che lo hatha-yoga esisterebbe anche se non ci fosse stato il rāja-yoga, perché esso fa affidamento sull’analisi della mente che il rāja-yoga ha sviluppato. Le due discipline sono interrelate e tracciare una linea di demarcazione tra le due ha poco senso. Una parte dal corpo, l’altra parte dalla mente, ma, se si prosegue indefessi nel cammino verso il samādhi, esse sono destinate a incontrarsi e fondersi.
Possiamo certo tracciare delle differenze tecniche: non ci sono mūdra nel rāja-yoga, l’āsana è solo quello meditativo, il prānāyāma è una generica gestione del respiro, senza spiegazioni di tecniche. Di tecniche invece ce ne sono molte nello hatha-yoga. Di nuovo, però, esse finiscono per essere vane se non accompagnate dalla consapevolezza che invece è ben insegnata e approfondita nel rāja-yoga.
«Senza il rāja-yoga la terra non risplende, senza il rāja-yoga la notte è vana, senza il rāja-yoga le mudrā, per quanto meravigliose, non risplendono» [6].
Il verso sopra, che può risultare un po’ criptico per via del simbolismo usato, si può tradurre anche così: «Senza rāja-yoga prithvī non si realizza; né nishā, né le varie tipologie di mudrā». Secondo l’interpretazione di Brahmānanda, prithvī, che significa terra, starebbe per āsana, perché entrambe, terra e āsana sono caratterizzate dalla stabilità; nishā, la notte, starebbe per il kumbhaka (il prānāyāma nella fase di trattenimento dell’aria a polmoni vuoti o pieni), perché entrambi sono caratterizzate dall’assenza di attività.
L’assenza di attività è anche il nirodha del pensiero, secondo la famosa definizione di yoga di Patanjali [7]. Quel nirodha si ottiene ovviamente con la meditazione e proprio nella meditazione troviamo una specificità che non si trova negli Yoga-sūtra. Patanjali indica la modalità della dharanā, la concentrazione, ma rimane aperto nei confronti degli oggetti su cui meditare: “Oppure mediante la meditazione, quale la si desideri”. Nello hatha-yoga l’oggetto di meditazione è in genere creato dall’interno o è l’interno del corpo: che sia il respiro, un chakra, una vibrazione interna, un suono prodotto o autoprodotte, la meditazione pertiene quasi sempre al corpo.
Proprio perché il corpo è così importante nello hatha, esso viene prima domato, controllato, poi osservato e infine dissolto (lāya). Nel rāja invece il corpo non si considera proprio, perciò la dissoluzione di ci si occupa è solo quella dei pensieri. Il risultato, che è lo scopo, rimane lo stesso: sperimentare il vuoto e con esso ānanda, la beatitudine.

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La lezione pratica di hatha-yoga “Hatha e Raja”, in diretto rapporto con questo articolo, è dedicata al connubio tra hatha e rāja-yoga.
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- Patanjali, Yoga-sūtra, 2.47.
- Patanjali, Yoga-sūtra, 2.46.
- Hathayoga-pradīpikā, 2.76.
- Hathayoga-pradīpikā, 1.1.
- Hathayoga-pradīpikā, 4.79.
- Hathayoga-pradīpikā, 3.126.
- Patanjali, Yoga-sūtra, 1.2.
- Patanjali, Yoga-sūtra, 1.39.