ARTICOLO – Quanto siamo ipocriti?

ARTICOLO – Quanto siamo ipocriti?

Adambha è un termine che in alcuni testi viene usato come sinonimo di ārjava. Adambha significa intatto, illeso, puro, vero e prende poi appunto le sfumature di ārjava, in particolare per quel che riguarda la sfera dell’ipocrisia.

«Il concetto etico di arjava è sinonimo di Adambha. Adambha significa anche non ingannevole, schiettezza e sincerità» [1].

Come per tutti gli yama e niyama siamo portati a pensare alla non-ipocrisia come a un mero valore etico e morale, concepito solo ed esclusivamente per il rispetto altrui e il benessere sociale. Non c’è dubbio che i risvolti sociali siano positivi, ma nella considerazione dei precetti yoghici bisognerebbe sempre partire da se stessi.

«Il Mahābhārata, nel libro 12, capitolo 60, elenca adambha (non ipocrisia) come virtù insieme ad akrodha (non rabbia), kshama (perdono) e altre. Nel capitolo 278, il poema epico spiega come e perché nasce l’ipocrisia, suggerendo che derivi dal peccato di cupidigia, avidità e attaccamento ai beni superficiali.» [2].

La rabbia, come ho già spiegato in un podcast, nuoce prima di tutto a se stessi. La mancanza di perdono coincide con uno stato interiore rancoroso e perciò nient’affatto pacificato. Allo stesso modo l’avidità, la cupidigia, l’attaccamento non lasciano l’anima tranquilla.

Personalmente non sono così sicura che l’ipocrisia nasca solo dall’avidità o dalla cupidigia, spesso nasce anche dall’illusione.

Succede di essere ipocriti con se stessi, perché illusi.

Avviene durante la concentrazione per esempio: ci sediamo nell’illusione di provare esperienze trascendenti o coltivare pensieri aulici, ma molto spesso i nostri pensieri sono molto terreni: un ginocchio dolente, il bisogno di muoversi, la fame, la noia, la fatica e distrazioni varie in genere riguardanti le questioni della giornata.

Il fatto poi che certi pensieri, ci attirino ben di più di un singolo oggetto di concentrazione, non è indice solo della difficoltà di concentrazione. Detta in maniera po’ provocatoria, se a distrarmi è la bella cena che mi aspetta, molto probabilmente se fosse già ora di quella cena non penserei due volte a cosa scegliere: lascerei perdere la meditazione e mi godrei la cena. Naturalmente non c’è niente di sbagliato in questo, non c’è giudizio in queste considerazioni, ma solo presa di consapevolezza.

Rendersi conto di queste piccole ipocrisie apre le porte alla verità del mondo interiore, facilitando la comprensione di sé e in un certo modo semplificando il percorso che la mente deve affrontare verso il nirodha, il contenimento dei pensieri. I metodi per farvi fronte sono tanti, per esempio si può concentrarsi sulla propria stessa ipocrisia: mi osservo nella mia voglia di andare a cena piuttosto che stare qui a meditare. È il classico atteggiamento della mindfulness, si ritrova in fondo anche nello zen, è un invito alla nudità, alla semplicità:

«Inoltre, la mente dev’essere liberata da ogni ipocrisia e im­pegnata in pensieri volti al bene di tutti: ecco ciò che s’intende per semplicità della mente» [3].

Con questa citazione di Swami Prabhubada, illustre esponente del Bhakti-yoga, si chiude il cerchio collegando la semplicità mentale che si instaura con la non-ipocrisia verso se stessi a un atteggiamento di positività verso tutti e tutto, come già accennato nell’articolo su ārjava. È chiaro che una visione chiara, pulita, sincera e allo stesso tempo positiva e propositiva induce ottimismo, gioia e profonda serenità interiore.

 

ipocrisia
Bhujanginī-āsana, posizione del serpente femmina. Nella cultura cristiana il serpente e la femmina, specie se combinati insieme, vengono associati alla tentazione, all’inganno, alla seduzione, tutto il contrario del principio di adambha che vuole essere non ingannevole: Siamo per sicuri che l’inganno stia in questi atteggiamenti?

 

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La  lezione pratica di hatha-yogaAdambha”, in diretto rapporto con questo articolo,  vuole sondare se ci sono motivi per far nascere in noi l’ipocrisia.

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  1. https://en.wikipedia.org/wiki/Arjava
  2. Ibidem.
  3. Commento di Prabhupada al verso 17.16 della Bhagavad-gītā.